I ristori al popolo Iva: arma a doppio taglio per Conte

venerdì 13 novembre 2020


Era prevedibile molto tempo prima dell’emergenza Covid che, prima o poi, la coperta dovesse rivelarsi corta. Corta fiscalmente, previdenzialmente e bancariamente… perché in economia (come in fisica ed in chimica) tutto si trasforma e nulla si crea per miracolo.

Nella tanto vituperata Prima Repubblica s’evitava di spingere la gente ad aprirsi la partita Iva, ad emergere. Perché i politici (e con loro amministratori, burocrati, dirigenti di Stato, economisti…) ben sapevano che quando le aziende sono in regola possono presentare il conto dopo ogni calamità naturale (pestilenza come terremoti ed alluvioni). Andare a risarcire milioni d’attività unipersonali equivarrebbe oggi a mettere definitivamente in ginocchio l’economia italiana.

Certamente agli albori della Seconda Repubblica nessuno avrebbe mai previsto la pandemia del 2020: oggi emerge che è stato un danno costringere milioni d’italiani, ed in quasi trent’anni, a diventare aziende. Queste ultime prima d’emergere (partita Iva ed iscrizione camerale) non è che fossero totalmente sconosciute al fisco, di queste strutture (perlopiù familiari) c’era memoria sin dai tempi dell’Ige (imposta generale sull’entrata), soltanto che la dirigenza di stato consigliava di colpire chi s’ingrandiva assurgendo ad impresa con evidenti entrate di cassa a nero. Valga l’esempio di Antonio Mombelli, “il maestro di Vigevano”, raccontato da Lucio Mastronardi come esempio dell’Italia che tollerava ed apriva calzaturifici abusivi. O delle Marche con fiorenti attività artigianali abusive, dove solo in pochi si mettevano in regola ed assurgevano alla dimensione dei Della Valle. Era l’Italia dell’imposta generale sulle entrate (o Ige), che veniva poi sostituita dall’Imposta sul valore aggiunto (Iva): in applicazione della direttiva 67/227/Cee, per consentire l’armonizzazione delle legislazioni d’imposta negli stati membri dell’allora Comunità economica europea (sono passati più di cinquant’anni dalla fine dell’Ige). A sua volta l’Ige era stata introdotta nel 1940, pensionando la storica imposta unica sugli scambi commerciali: riforma che recava la firma dell’allora titolare del Tesoro Paolo Thaon di Revel, un nobile piemontese, figlio di quella scuola che nel subito dopo unità d’Italia andava velocemente a pensionare (ed omogeneizzare) il sistema preunitario dei dazi (storia affascinante, ma non mettiamo troppa carne a fuoco). Il problema è che la pandemia ha dimostrato come i sistemi economici europei non siano omologabili, che l’economia italiana non potrebbe mai strutturarsi come quella olandese o tedesca. Soprattutto che la globalizzazione (con regole, contratti e delocalizzazioni) ha pian pianino desertificato il lavoro in Italia. Va detto che, se un italiano riesce a stabilirsi a Berlino come imprenditore, naturalmente apre attività a norma Ue, e questo lo si deve alla veloce circolazione delle risorse ed alla rodata macchina fiscale ed amministrativa (è così da metà Ottocento, dalla Germania guglielmina). Allo stesso imprenditore non si dovrebbe consigliare l’emersione d’opifici nel Nord Italia con un “cash flow” inferiore a sessantamila euro annui (e per tre anni), inferiore a quarantamila euro nel Centro Italia (sempre dopo un bilancio triennale), e nel Sud Italia ed Isole evitare di far aprire partite Iva ed iscrizioni camerali a chi in un arco di tre anni non ha superato i trentamila euro annui d’incasso.

Il chiudere un occhio sulle attività a nero, che era tipico della Prima Repubblica, permetteva la lenta e ponderata emersione delle attività, consentendo minor indebitamento familiare. Infatti chi lavorava abusivamente usava solo il contante, e questo permetteva che solo in rarissimi casi vi fosse insolvenza sugli acquisti di materie: queste ultime venivano comunque reperite sul mercato emerso, basti pensare a vernici, cemento, ferro, pesticidi per l’agricoltura, ricambi per macchine.

L’Italia di oggi è un popolo di partite Iva indebitate per pagare macchinari e strutture a norma Ue, per pagare costi previdenziali ed assicurativi vari, per leasing di vetture e mutui vari, per far fronte a storici rateizzi di tasse e contenziosi fiscali e bancari: un groviglio d’indebitamento personale e familiare che oggi spera di sanare i vari buchi grazie ai ristori di Giuseppe Conte e compagnia cantante. A conti fatti, la vecchia circolazione del contante senza limiti abbinata allo storico pulviscolo di lavoro sommerso, consentiva entrasse nelle famiglie quanto sufficiente ad un decoroso costo della vita: siccome era tutto ben poco dimostrabile, in caso di calamità naturale non venivano presentati conti salati ai bilanci pubblici.

Del resto, non possiamo dimenticare quanto sia costato allo Stato il piano risarcimenti per i terremoti (Belice, Friuli, Irpinia…), per le alluvioni (Firenze, Polesine…) o per le epidemie (Asiatica, Colera…): un sistema che, con le sue tante disfunzioni, ha dimostrato i troppi limiti nella gestione delle casse dello Stato.

Oggi, causa l’esplosione delle microattività in regola (con partita Iva ed iscrizione a Camera di Commercio) lo Stato è costretto a dichiarare che la coperta è cortissima: come nella scelta di chi curare e chi no, altrettanto i ministeri economici saranno costretti a scegliere chi ristorare e chi no. E non illudiamo la gente con la storiella che i “Recovery fund”, il Mes o i vari fondi europei (compreso il Fondo sociale) possano essere irrorati a pioggia (ed a fondo perduto) sul popolo delle partite Iva: in questo ragionamento s’anniderebbe il dolo, il danno erariale, la distrazione di fondi Ue, la turbativa del mercato. Finita la pandemia, i responsabili dei ristori verrebbero chiamati a risponderne civilmente e penalmente in base alle segnalazioni che partirebbero anche da Bruxelles. Se ne deduce che Conte eviterà il lockdown per evitare i ristori a pioggia, per evitare i processi.


di Ruggiero Capone