Crisi industriali: il Mise apre tavoli che poi non riesce a chiudere

mercoledì 18 novembre 2020


Dal polo delle lavatrici di una multinazionale Usa a Napoli all’acciaio di Taranto, Piombino e Terni, la maggior parte delle trattative resta al palo. Ed è triste rileggere le dichiarazioni dell’ex ministro dello Sviluppo economico ed ora ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, rilasciate nell’ottobre 2018: “Whirlpool non licenzierà nessuno e ripoterà parte della sua produzione che aveva spostato in Polonia, sono orgoglioso ce l’abbiamo fatto”. Purtroppo, il 31 ottobre del 2020 la fabbrica è stata chiusa definitivamente. Riporto quindi i riferimenti industriali che oggi caratterizzano i tavoli aperti presso il ministero dello Sviluppo Economico: Jindal gestore dell’impianto siderurgico di Piombino, ArcelorMittal gestore dell’impianto siderurgico di Taranto, ThyssenKrupp gestore dell’impianto siderurgico di Terni, Jabil nell’area industriale di Caserta, Treofan di Terni, Smart City Group a Termini Imerese, Ex Alcoa nel Sulcis in Sardegna, Embraco in Piemonte, Acc in Veneto. Mi fermo qui perché il numero di “tavoli” per la soluzione di queste crisi ormai supera il numero di 150. E in questo preoccupante momento, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha ultimamente precisato: “Esistono possibili interventi diretti per il rilancio industriale, lo dimostra la creazione del polo di compressori nato dalla soluzione delle crisi di Embraco e Acc. Quindi faremo il massimo per preservare il presidio napoletano”. Cioè, Conte invoca questa esperienza come un segnale di speranza anche per la Whirlpool di Napoli. Anche in questo caso, il presidente dimentica il fallimento mediatico del ministro Di Maio e, solo dopo pochi giorni, da una simile dichiarazione di speranza la fabbrica di Napoli ha chiuso.

La prima considerazione che ritengo utile fare è che questa esplosione di crisi industriali è avvenuta prima del mese di marzo scorso, prima che iniziasse la pandemia. Ed è avvenuta perché in realtà il Movimento 5 Stelle aveva ritenuto opportuno aprire tutti questi tavoli per contenere la serie di fallimenti e di licenziamenti che la coda della crisi economica iniziata nel 2008 continuava a produrre; invece di dare vita ad un azione organica mirata a garantire il risanamento vero di tali impianti industriali, il Movimento ha preferito rivedere la serie di rapporti e di contratti sottoscritti in passato dai vari imprenditori; un caso tra tutti quello dell’accordo sottoscritto dall’ex ministro allo Sviluppo economico, Carlo Calenda, con Arcelor Mittal per il centro siderurgico di Taranto.

La seconda considerazione è relativa alla incapacità da parte del Governo e del ministro dello Sviluppo economico, sempre proveniente dal Movimento 5 Stelle, di tentare di portare a termine le varie vertenze senza però disporre di proposte capaci di modificare il difficile rapporto tra domanda e offerta nel vasto comparto produttivo industriale. Faccio solo alcuni esempi: le crisi nel comparto dell’auto si risolvono ricorrendo alla rottamazione, le crisi nel comparto dell’abbigliamento si combattono intervenendo in modo sostanziale sul costo del lavoro; questo ultimo fattore infatti induce automaticamente i soggetti responsabili della produzione a trasferirsi in realtà in cui il costo del lavoro, in molti casi, è al di sotto del 70 per cento del costo del lavoro in Italia.

La terza considerazione, invece, è relativa al modo con cui è stata ed è condotta la trattativa con Arcelor Mittal. Io prendo per buone le ultime notizie apparse su vari quotidiani nazionali: lo Stato italiano è disposto a garantire un volano di risorse pari a un miliardo di euro, lo Stato italiano inserisce tra gli azionisti Invitalia, Arvedi sembra disposta ad entrare nel nuovo assetto gestionale. Ebbene Arvedi in occasione della gara internazionale per la gestione dell’impianto siderurgico di Taranto era nel gruppo AcciaItalia guidato dall’indiana Jindal insieme a Cassa depositi e prestiti e Leonardo Del Vecchio. La cordata vincente, quella guidata da Arcelor Mittal aveva offerto 1,8 miliardi di euro, molto di più rispetto ad AcciaItalia. Ricordo anche che all’epoca la Unione europea, con apposito atto formale, avvisò il nostro Paese sui rischi dell’antitrust europeo in caso di vittoria della cordata guidata da Arcelor Mittal, e i commissari, preposti alla identificazione della scelta più conveniente chiesero ai due gruppi di esprimersi sulla possibile proroga al 31 marzo 2018, ricevendo la risposta negativa proprio dal gruppo AcciaItalia. Sembra, quindi, davvero strano che questo tavolo possa operare in un modo così anomalo o quanto meno ricco di cambiamenti procedurali e di rivisitazioni comportamentali che, sicuramente, diventeranno oggetto di approfondimento, qualora si dovessero concludere con questa ricchezza di cambiamenti, proprio da parte dei vari organismi responsabili della trasparenza della Unione europea.

La quarta considerazione, è relativa alla possibile ormai sistematica soluzione di una partecipazione azionaria dello Stato nella gestione di specifiche attività industriali. Ricordo a questo Governo, composto da giovani ministri, che nel 1971 fu istituita la Società per le gestioni e partecipazioni industriali (Gepi) la cui “mission” era quella di concorrere al mantenimento ed all’accrescimento dei livelli di occupazione compromessi, da difficoltà transitorie, di imprese industriali; una azione caratterizzata da interventi di riassetto o di riconversione mirati al risanamento delle imprese stesse. Si creò quindi questo strumento per evitare di disperdere gli interventi dello Stato in mille rivoli, concentrandoli quindi all’interno di un nuovo soggetto, Gepi, che inoltre era dotato delle apposite capacità imprenditoriali per guidare le società in difficoltà. Quindi, il compito istituzionale della Gepi doveva essere quello di entrare nel capitale di aziende private in crisi (specie piccole e medie) e di agevolarne la ristrutturazione, per poi uscirne; nelle intenzioni doveva trattarsi di interventi esclusivamente temporanei, anche se in effetti in molti casi la Gepi si trovò a gestire aziende in crisi irreversibile e difficilmente risanabili. Nel 1993 la Gepi passò sotto il diretto controllo del ministero del Tesoro; i lavoratori in cassa integrazione furono progressivamente assegnati a “lavori socialmente utili” in carico agli enti locali od inseriti nelle liste di mobilità. Nel gergo giornalistico la Gepi fu definita come il “lazzaretto” del nostro sistema industriale.

Incamminarsi verso questa triste conclusione per un Paese che fa parte del G7, che in termini manifatturieri è al secondo posto in Unione europea, non solo è grave ma testimonia chiaramente la incapacità di azioni strutturali operate proprio di chi è preposto al Governo del Paese. Mi riferisco ad azioni operate nel sistema della fiscalità, in quello del costo del lavoro, in quello della offerta dei servizi, in quello dell’assetto infrastrutturale. In queste aree strategiche in questi ultimi anni c’è stata solo la più triste atarassia e, purtroppo, con i tavoli aperti e con le possibili “Gepi” il nostro Paese rischia di uscire dal G7 e perdere così un ruolo chiave nel teatro dei processi produttivi.

(*) Tratto dalle Stanze di Ercole


di Ercole Incalza (*)