Non c’è Mes che tenga

venerdì 23 giugno 2023


Con la scomparsa di Silvio Berlusconi sembra tramontare la sua idea di centrodestra, quella che sin dall’estate del 1992 aveva cominciato a ideare e che poi si concretizzò nel 1993 con l’appoggio morale alla candidatura di Gianfranco Fini a sindaco di Roma, la fondazione di Forza Italia e l’accordo che lo portò al governo con la Lega al nord e con Alleanza nazionale al centro-sud.

Ad ogni modo Berlusconi fu capace di realizzare quello che nessuno si aspettava: far nascere il bipolarismo in Italia. Possiamo affermare che l’unica riforma politica, al netto della postuma esagerata santificazione a cui stiamo assistendo da giorni, di cui è padre Silvio Berlusconi fu proprio questa, che ancora oggi come formula elettorale resiste con tutte le innovazioni del caso: infatti tutti e tre i protagonisti di quella stagione, il Cavaliere, Fini e Bossi, sono usciti di scena in un modo o in un altro.

Detto questo però altri due meriti vanno ascritti a Berlusconi: ha liberato la scena pubblica da quella triste cappa bacchettona che caratterizzava la cultura cattocomunista dell’Italia di quegli anni e se volete che permane nell’attuale sinistra, sempre pronta a giudicare a dare patenti di moralità a chicchessia, e ha fatto capire a molti che l’individuo con la sua genialità è il vero artefice della sua fortuna e lo Stato deve interferire il meno possibile con la sua vita. Questa carica individualistica, se volete anche “autosovrana”, è quella che si è caratterizzata come un antidoto al collettivismo totalitario.

Il centrodestra in questi anni è stato il portatore di questo principio declinato in termini di sovranità, federalismo e liberismo, oltre a tutte le altre idealità come la patria e la cultura nazionale. È stato il collante della coalizione, che in virtù della diversità delle forze che lo compongono, ha visto crescere i propri consensi. Anche le misure di contenimento anti-Covid come mascherine e lockdown, hanno dato nuovo impulso a queste sensibilità libertarie che sono diventate ancora di più preponderanti nel sentimento diffuso degli italiani.

Ora, disperdere questo patrimonio sarebbe un errore grave. Andrebbe semmai rilanciata ancora di più la libertà individuale perché significa mettere al riparo l’Italia da ogni deriva pericolosamente populista e demagogica che si vede di nuovo crescere all’orizzonte. Il tema è mettere in campo iniziative perché non si scivoli verso altri anni bui come quelli della contestazione violenta e del terrorismo, da cui, ammettiamolo, ci eravamo “moralmente” liberati anche grazie alla leggerezza dei programmi di intrattenimento come “Drive In” andati in onda sulle reti di Berlusconi.

Se poi si va a vedere il rapporto sulla libertà d’impresa, l’Economic freedom of the world, si capisce subito dove è necessario intervenire. Questo documento è elaborato dal Fraser Institute, tra i più importanti think tank dell’America settentrionale fondato nel 1974, ed in esso l’Italia è al 46° posto su 165 nazioni prese in considerazione, nella stessa fascia di Francia, Kazakistan, Botswana e Nicaragua. In quella superiore troviamo Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Albania, Romania con al primo posto Hong Kong. Non stupisce poi l’accanimento della Cina comunista contro le manifestazioni in quella regione. I cinesi ritengono da buoni socialisti infatti intollerabile che ci sia la più ampia libertà economica del mondo in una parte del loro territorio perché essa comporta anche quella individuale e politica.

Altro indice da tenere sott’occhio è lo Human Freedom Index (Hfi), sempre implementato dal Fraser Institute che è una misura della libertà umana, intesa come assenza di costrizione coercitiva. Questo indice annuale si basa su 83 distinti indicatori tra cui le normative, la sicurezza, la tolleranza religiosa, le relazioni associative, le dimensioni del governo, l’ordinamento giuridico, i diritti di proprietà, la libertà di commerciare a livello internazionale ed altri ancora.

I primi 10 Paesi che hanno un più alto grado di libertà sono Svizzera, Nuova Zelanda, Estonia, Danimarca, Irlanda, Svezia, Islanda, Finlandia, Paesi Bassi e Lussemburgo. L’Italia è al 33° posto nell’ultimo rapporto del 2022 redatto da Ian Vásquez, Fred McMahon, Ryan Murphy, Guillermina Sutter Schneider e pubblicato a gennaio 2023, ben al disotto del Canada (13), Taiwan (14), Giappone (16), Germania (18), Regno Unito (20), Stati Uniti (23), Corea del Sud (30), Cile (32).

Il nostro obiettivo quindi come Paese dovrebbe essere quello di raggiungere quanto meno i partner europei più importanti, anche perché queste analisi, unitamente ad altre, suggeriscono che la libertà gioca un ruolo importante nel benessere umano, nella percezione di esso e nella capacità di creare ricchezza.

Un governo che volesse intraprendere questa strada ha un percorso quasi obbligato: delegiferare per semplificare l’esistenza ai cittadini, ridurre la spesa pubblica per liberare risorse, sburocratizzare per diminuire l’ingerenza dello Stato e detassare perché c’è sempre una buona ragione per abolire un tributo.

Anche la vicenda del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) si può inquadrare in quest’ottica. Dicono gli “esperti dei giornaloni”, i politici della sinistra che lo hanno caldeggiato nel lontano 2012 e i burocrati del Ministero dell’Economia e delle finanze italiano, che è utile averlo come paracadute anticrisi essendo un fondo salva-Stati. Ed in più, sostengono, serve a rafforzare la credibilità dell’Italia all’estero e presso gli investitori e a piazzare meglio i buoni del tesoro.

Ma siamo sicuri di contro che far passare ancora una volta l’idea di un’Italia pizza, sole e mandolino che cerca sempre di farla franca sia utile, igienico oltre che dignitoso?

La credibilità di una nazione dovrebbe risiedere nella capacità di reggersi sulle proprie risorse, senza ricorrere ad espedienti che poi in sede di applicazione non sarebbero più dipendenti dalla sua volontà. È il più classico dei paternalismi pensare che per essere accettati nel club dei grandi bisogna farsi accompagnare da mamma “Europa” alla festa. E chi lo dice poi che tra poco più di un anno le urne non ci consegneranno una Unione europea diversa e contraria ai debiti facili?

Sarebbe più serio affrontare la questione laicamente e rinunciare a qualsiasi valvola di salvataggio in maniera da costringere i futuri governi, che non è scritto da nessuna parte saranno di centrodestra, a politiche economiche di contenimento della spesa pubblica, proprio perché l’assenza del Mes farebbe da freno alla gestione allegra che anche recentemente ha solo aumentato il nostro già esorbitante debito pubblico, senza portare reali benefici. Quando decideremo di archiviare le tragiche teorie di John Maynard Keynes sarà sempre troppo tardi. La ratifica del Mes sarebbe infine il tradimento dello spirito proprio del centrodestra delle origini e di quel anelito di libertà che lo ha reso desiderabile agli italiani.


di Antonino Sala