Il caso Dell’Utri e il giudice a Beirut

Silvio Berlusconi ai servizi sociali e Marcello Dell’Utri arrestato in Libano in attesa della condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa sono la conferma definitiva che Forza Italia è stata una organizzazione criminale? Oppure, il fatto che il leader del partito più votato dagli italiani negli ultimi vent’anni ed il suo storico collaboratore si trovino entrambi al punto di arrivo di lunghissimi percorsi processuali, rappresenta la dimostrazione che Forza Italia ed i suoi rappresentanti sono vittime di un’ingiusta persecuzione giudiziaria?

La questione ha diviso e continuerà a dividere a lungo l’opinione pubblica del Paese. Perché se da un lato l’egemonia della sinistra giustizialista sui mass media italiani alimenta la convinzione che il cosiddetto ventennio berlusconiano sia stata una parentesi oscura e illegale della storia d’Italia, ci sarà sempre una fetta del Paese decisa a negare questa tesi ed a sostenere quella opposta dell’uso politico della giustizia applicato sistematicamente dalla sinistra e dalle sue articolazioni giudiziarie per distruggere i propri avversari politici. Al momento, la convinzione dei primi sembra prevalere sulla tesi dei secondi. Ma è possibile che su questa ormai infinita discussione che si consuma nel nostro Paese e che nasce proprio dalle tante anomalie della sua storia antica e più recente, cada del tutto inaspettatamente un giudizio esterno non condizionato dalle passioni suscitate dall’ultimo aspetto assunto dalla guerra civile italiana.

Chi ha seguito le cronache dell’arresto di Marcello Dell’Utri è rimasto colpito dalla particolare enfasi con cui i media hanno raccontato dell’albergo a cinque stelle in cui è stato trovato l’ex senatore, del denaro contante trovato nelle sue tasche, degli spostamenti aerei dalla Francia al Libano, della cena intercettata in cui il fratello di Marcello avrebbe parlato del suggerimento del pregiudicato Mokbel ad appoggiarsi ad alcuni esponenti politici libanesi, e infine dell’accusa di riciclaggio pendente sul capo del proprietario del ristorante romano dove insieme al vino si servono le cimici d’ascolto sotto il tavolo.

Tra un’enfasi e un’altra, però, è emerso che Dell’Utri è partito dall’Italia prima che venisse spiccato nei suoi confronti un mandato di cattura, che non ha mai viaggiato con documenti falsi ma con il proprio passaporto su aerei di linea facilmente controllabili, che non si è nascosto in una qualche abitazione privata di qualche amico compiacente nella periferia di Beirut e che, al contrario, ha alloggiato con il proprio nome in uno degli alberghi più noti e controllabili della capitale libanese. Si comporta in questo modo chi vuole sfuggire ad una sentenza, che tra l’altro non è stata ancora decisa anche se la Procura di Palermo la prevede con largo anticipo sicuramente negativa per l’imputato?

Può essere che a Dell’Utri siano saltati i nervi dopo anni e anni di via crucis giudiziaria. E che si sia solo preoccupato di allontanarsi dall’Italia senza ricorrere ad alcun tipo di precauzione o sotterfugio. Ma può essere, al contrario, che un comportamento da latitante in fuga così anomalo non sia affatto dovuto a cedimento nervoso. Nel trattato del 1970 tra Italia e Libano, che prevede la mutua possibilità di arresto ed estrazione tra i due Paesi, è stabilito che il Libano è obbligato ad adempiere alle richieste di indagini e di arresto che provengono tramite l’Interpol, ma può rifiutare l’estradizione se i reati contestati vengono ritenuti collegati all’espressione di opinioni politiche.

Può essere allora che la brevissima latitanza di Dell’Utri non sia affatto il frutto del panico, ma rappresenti la spia di un disegno teso ad ottenere da un’autorità estranea alle passioni italiane il riconoscimento che non c’è stato un romanzo criminale ma solo una persecuzione politica per via giudiziaria. Ci sarà pure un giudice a Beirut!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:27