L’incendio libico   minaccia l’Italia

La Libia è in fiamme. Bella scoperta! È da tre anni che la situazione precipita nonostante le sciocchezze che le cancellerie occidentali continuano a raccontare alle proprie opinioni pubbliche. Lo fanno per nascondere la verità. Non hanno il coraggio di ammettere di aver sbagliato nel pensare che si potesse avviare un processo democratico all’interno di una società che non ha alcuna voglia di concedersi alle altezze del pensiero liberale cresciuto nell’Europa settecentesca e passato sotto il fuoco di rivoluzioni politiche ed economiche, ma anche di guerre devastanti e di totalitarismi sanguinari. Si sono illusi di rovesciare la tesi per la quale, in certi contesti, il meglio per la stabilità interna e per gli equilibri internazionali, raramente corrisponda con la soluzione istituzionale più desiderabile. Spesso bisogna affidarsi a ciò che è meno peggio per ottenere i risultati sperati. Anche le satrapie possono avere la loro utilità. Egitto docet.

In Libia vige la legge delle tribù per le quali il ricorso alla forza è un mezzo come un altro di regolazione dei rapporti di potere tra clan rivali. In fondo l’esperienza del regime di Al Qadhdhāfi è stata una parentesi nella storia millenaria di un crogiuolo di etnie e di strutture tribali autoreferenziali. Il colonnello, con i suoi sistemi dittatoriali, riusciva a tenere a bada una situazione altrimenti ingestibile, come i fatti susseguitisi alla sua caduta hanno ampiamente dimostrato. Oggi si rischia il disastro e nessuno, in Occidente, ha la forza, o la voglia, di intervenire per porre fine allo stato d’anarchia che si è di fatto determinato. La cosa peggiore da vedere è il comportamento pusillanime del governo italiano il quale, dopo aver ampiamente sottovalutato la portata del rischio Libia, timidamente inizia ad accorgersi che “la situazione preoccupa”. Sono le parole del premier. Eppure l’alfiere della “politica del fare”, Matteo Renzi, non trova il coraggio per imporre agli alleati una svolta nella gestione della crisi. Non osa fare ciò che i francesi hanno fatto nel gennaio 2013, intervenendo in Mali quando il legittimo governo di quel Paese veniva minacciato dall’avanzare delle milizie jihadiste e qaediste del terrorismo islamico. La Libia è affare italiano di prima grandezza. Per svariati motivi, tutti validi. Ciò che accade in quelle terre desertiche ha diretta ricaduta sugli interessi e sulla sicurezza del nostro Paese. Non è possibile ignorarlo.

Un tempo siamo stati colonizzatori di quello che sembrava soltanto “uno scatolone di sabbia”. Abbiamo per questo delle responsabilità storiche che non dovremmo dimenticare. Tanti nostri connazionali hanno contribuito, nel corso del Novecento, alla costruzione di quel minimo di infrastrutture e di tecnologia nello sfruttamento del suolo che aiutasse il Paese a uscire dal medioevo a cui era relegato prima del loro arrivo. Questo legame forte tra i due Paesi è stato mantenuto anche dopo la fine del colonialismo. Sia re Idris, unico sovrano della Libia unita, sia Al Qadhdhāfi, Guida Suprema della Rivoluzione della Grande Jamāhīriyya, hanno tessuto con gli apparati politici ed economici del nostro Paese relazioni strettissime. Da questi rapporti l’Italia ne ha tratto vantaggi e molti altri avrebbe potuto trarne se l’arroganza di Sarkozy, miscelata alla miopia di Obama, non avesse precipitato la Libia nella sciagurata guerra del marzo 2011.

Ora è giunto il momento di ricambiare i benefici ricevuti. Renzi smetta per un po’ i panni del bullo di Paese e si vesta d’autorità. Disponga l’invio di una forza armata che possa mettere in sicurezza i siti sensibili per la vita dello Stato libico e possa ristabilire l’ordine. Almeno nelle principali città. Chieda agli alleati occidentali un coinvolgimento diretto nella missione e ai membri della Lega Araba un sostegno all’iniziativa.

È certo che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, come l’intendenza, seguirà. Non farà mancare la sua copertura, attraverso una risoluzione che legittimi la presenza straniera per il ristabilimento della pace. Né più né meno di come è stato fatto nel Mali, con l’intervento armato francese. Non possiamo perdere neppure un giorno oltre quelli già perduti perché la guerra civile in atto potrebbe improvvisamente favorire la vittoria sul campo delle milizie jihadiste che sognano di fare della Libia un nuovo califfato. Alle porte di casa nostra. Benché le finanze pubbliche italiane non godano di buona salute, investire sull’impiego di un contingente ben equipaggiato è un costo necessario per il nostro futuro. Il fatto è che per mettere in piedi un’operazione di tale portata bisognerebbe preparare il terreno attraverso un’efficace attività strategico-diplomatica in sede Nato e negli Organismi internazionali.

Bisognerebbe avere un navigato ministro degli esteri che fosse in grado di mettere sul tappeto il suo prestigio personale per convincere alleati e non a dare il consenso all’iniziativa. Il guaio è che l’Italia un ministro degli esteri così non c’è l’ha. Finirà che questa impotenza la pagheremo cara. Eccome se la pagheremo cara!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:21