Il “default tecnico”   che l’Italia non coglie

Il fallimento di aziende e Stati non è una tragedia. Soprattutto oggi, nell’Era della moneta elettronica, delle banche virtuali. Con la globalizzazione non hanno più molta importanza i nomi dei detentori dei pacchetti azionari, siano essi persone fisiche o giuridiche. Soprattutto non importa più a nessun manager o politico che in un dato Paese la gente sia rimasta tutta senza soldi e lavoro. Il lavoro ed i denari sono diventati altamente mobili, se non volatili. Questo lo ha capito bene la classe politica argentina, che secondo certi avrebbe pattuito con i signori statunitensi della finanza un ennesimo “fallimento tecnico” e preconfezionato. Per l’Italia, purtroppo, non sono ancora mature le condizioni per preconfezionare un default strategico. Ma sono ampiamente maturi i tempi perché anche l’uomo di strada comprenda che, un misto di moda e volontà bancarie internazionali, impongono che la moneta elettronica (e virtuale) sostituisca quella cartacea.

Ma veniamo ad un esempio magniloquente. Rammentate il caso Parmalat? Un breve excursus è d’obbligo. Il caso Parmalat saltava agli onori delle cronache, proprio quando un solerte revisore dei conti notava che qualcosa non tornava nella consociata argentina del gruppo parmense. Per anni Parmalat aveva emesso bond in forza d’un virtuale deposito negli Usa per svariati milioni di dollari: appunto virtuale, elettronico. La presenza di quei quattrini (alquanto fantasmagorica) aveva permesso alla Parmalat d’emettere titoli, le banche piazzavano quei titoli sul mercato, la gente li comprava e tutto filava liscio come l’olio. Al punto che Parmalat è stato per decenni un titolo guida della borsa. L’uomo di strada comprava bene quei bond e li vendeva meglio. Tutti erano felici e contenti, perché la borsa è un gioco. E chi investe professionalmente in titoli sa che tutto è virtuale, elettronico, umorale. Un bel giorno un ragazzotto delle società di revisione ha deciso di giocare a fare il primo della classe, lo stacanovista dei conti: ha denunciato il giochetto, mettendo la famiglia Tanzi nella merda e, soprattutto, milioni d’italiani in mutande. D’un botto s’è inceppato il sistema, solo per aver strombazzato la vicenda a giornali e procure.

Eppure sarebbe bastato suggerire ai Tanzi d’azionare un longevo piano di rientro, ed ognuno si sarebbe estinto per cause naturali. Ma il Pierino che ha giocato al primo della classe non era affatto uno sprovveduto, infatti aveva prestato semplicemente ascolto ad un signore che voleva acquistare per un euro la consociata argentina di Parmalat: ovvero 600 milioni di debiti della Parmalat. Un beota? Affatto! Il soggetto (ormai nuovo padrone) ha preso l’aereo della consociata argentina, ammettendo di non avere nemmeno il danaro per il carburante. Qualcuno gli ha pagato l’andata e ritorno. Quindi è volato alla volta di Parma per dire a tutti d’aver tolto 600 milioni di euro dal default Parmalat, facendo così scendere il crack a soli 2 miliardi e 400 milioni di euro. Poi ha chiamato le banche dicendo loro che la consociata argentina era disposta a pagare solo 150 milioni di euro ai debitori e non 300 milioni: la stessa solfa è stata ripetuta ai dipendenti, a cui ha promesso nessun licenziamento, a patto che il debito da 300 milioni di euro venisse ridotto a 150. La storia della consociata argentina ha entusiasmato i maghi sudamericani della finanza, che ora si giocano il “default tecnico” ogni volta che serve mettere i conti a posto. E ora veniamo ai nuovi e piccoli banchieri di casa nostra. Quelli che ci vogliono vendere le “paycard” di diritto anglo-maltese. Carte di credito ricaricabili, utili a metterci sopra moneta elettronica non tracciabile e sotto il controllo delle banche di gioco e scommessa di diritto britannico.

In Italia non è possibile fabbricare questi strumenti, la banca d’Italia lo scongiurerebbe in ogni maniera: la disciplina italiana è molto più severa di quella britannica, olandese e maltese. Infatti solo oggi la Sisal potrà varare la sua “paycard”, ma perché forte s’è fatta la richiesta di valuta elettronica per l’accresciuto giro di giochi, scommesse e sale da poker. Allora gli intraprendenti italiani volano a Malta, costituiscono società di “paycard” sotto l’egida del diritto maltese (quindi riconosciute anche in Inghilterra ed Olanda). S’affidano per la consulenza ad un gruppo che le “paycard” ricaricabili le ha ampiamente collaudate su piazze difficili come Las Vegas, Baltimora, Miami, Londra… La gente in quei posti compra “paycard” ricaricabili al pari di come un tempo s’aprivano conti cifrati nell’ormai sputtanata (e sbracata) Svizzera. Le “paycard” di diritto anglo-maltese sono anonime, soprattutto permettono di trasferire elettronicamente moneta in qualsiasi luogo. Sfuggono quindi al ficcanasare quotidiano di procure e Fiamme gialle. Ma occorre tenere gli occhi ben aperti. In Italia stiamo subendo l’invasione di queste “carte ricaricabili” che vengono vendute e stampate sotto l’egida (ed il permesso) dell’American Express. Farsene una costa tra i 10 ed i 15 euro. Si tratta di banche uninominali: chi le costituisce a Malta è contemporaneamente banchiere, cassiere, maggior azionista, controllore di se stesso. Non dovrebbero truffarci, a patto che sappiamo centellinare i soldi ricaricati

Intanto esistono, e qualcuno già le usa per fuggire dall’Italia, dove il “fallimento pilotato” (sul modello argentino) di Unicredit piacerebbe a tanti nella stanza dei bottoni. “Dobbiamo imparare dagli argentini - ci confida un grand commis di Stato - un fallimento pilotato di Alitalia avrebbe sistemato tutto già un paio d’anni fa: ma noi siamo troppo bigotti e pavidi, il timore delle magistratura ci ha ridotto a nani, l’errore su Finmeccanica è la prova di come l’Italia sia bloccata su questo fronte”. Così mentre l’Argentina coglie l’opportunità del default, noi italiani si rimane al palo, impantanati sulle riforme.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:21