La riforma elettorale: i possibili (due) scenari

sabato 2 agosto 2014


La modifica dell’Italicum non è più un’eventualità astratta, ma una certezza quasi assoluta. L’unico dubbio riguarda la soglia di sbarramento per i partiti minori. Che quelli maggiori vorrebbero non inferiore al quattro per cento sia per chi corre da solo che per chi entra in coalizione, e quelli minori vorrebbero più bassa possibile (il Nuovo Centrodestra punta al 2 per cento, ben sapendo di non potere andare oltre in termini di voti).

Ma per il resto, dalla quota del quaranta per cento che esclude il ballottaggio ma che di fatto lo rende quasi obbligatorio (con questi chiari di luna neppure Matteo Renzi può dirsi sicuro di superare al primo turno la quota che garantisce il premio di maggioranza) al compromesso tra preferenze e capilista designati e bloccati, tutto sembra già pronto per essere sottoscritto ed ufficializzato nel prossimo incontro tra il premier e Silvio Berlusconi.

È possibile che questa non sia la soluzione migliore per la riforma elettorale. Ma al momento sembra essere la sola possibile. E prenderne atto è un indispensabile esercizio di realismo. Che serve anche a prevedere non solo e non tanto i futuri posizionamenti dei partiti e la nascita o meno di possibili coalizioni, quanto la sorte dell’attuale legislatura.

Definire la riforma della legge elettorale significa farla approvare dal Parlamento entro il prossimo autunno. Ed avere a disposizione lo strumento con cui avere la possibilità di ricorrere al corpo elettorale con la ragionevole prospettiva di dare un Governo stabile al Paese, apre un doppio scenario che riguarda il Quirinale e Palazzo Chigi.

Approvata la legge elettorale, infatti, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano può incominciare a prendere in seria considerazione l’ipotesi di anticipare la conclusione del suo secondo mandato. Può pensare di farlo prima di eventuali elezioni anticipate e scaricare sull’attuale Parlamento il compito di eleggere il suo successore. Ma può anche decidere di sciogliere le Camere, rinviando il momento delle dimissioni ad una fase successiva per fare in modo che sia il nuovo Parlamento a scegliere il futuro capo dello Stato.

In un caso o nell’altro è fin troppo chiaro che con la nuova legge elettorale in tasca possa crescere in Matteo Renzi il desiderio di non protrarre fino al 2018 il tormento del “Vietnam parlamentare” in cui si è impantanato e di sfruttare quel residuo di luna di miele con l’elettorato che ancora gli è rimasto. Al momento l’ipotesi delle elezioni anticipate è solo un desiderio per il presidente del Consiglio. Ma che succederà in autunno dopo che la lunga guerra estiva dei dissidenti sulla riforma del Senato avrà fatalmente intaccato la sua immagine e le difficoltà dell’economia lo avranno costretto a compiere inevitabili scelte impopolari?

La possibilità che andare al voto anticipato nella primavera prossima diventi per Renzi una strada obbligata non è affatto aleatoria. Al contrario, più il tempo passa dimostrando come sia sempre più complicato controllare i gruppi parlamentari di un Pd nient’affatto normalizzato, più diventa vitale per il premier sfruttare l’onda ancora in movimento del voto europeo prima che si esaurisca del tutto. Chi ipotizza una lunga durata della legislatura, allora, deve rivedere i propri calcoli. Perché, a dispetto delle sue dichiarazioni, l’interesse di Renzi non è e non può essere quello di farsi rosolare a fuoco lento dai vecchi marpioni del suo partito. Al voto nell’aprile del 2015, allora? Nell’incertezza meglio prepararsi!


di Arturo Diaconale