La strana guerra combattuta contro Isis

Strana guerra quella combattuta dagli Usa in Iraq, contro le forze del nuovo Califfato. È una guerra condotta in modo riluttante, che procede per tentativi ed errori, apparentemente priva di strategia. Fino a ieri era escluso un intervento di terra, ma il generale Martin Dempsey, capo degli Stati Maggiori Riuniti statunitensi, ieri ha dichiarato di non escludere neppure l’invio di truppe. Gli americani metteranno di nuovo piede in Iraq, dopo la ritirata del 2011?

La guerra è incominciata l’8 agosto, con il proposito umanitario di salvare i cristiani e gli yezidi dalla pulizia etnica condotta dagli jihadisti. La prima strategia consisteva in raid aerei selettivi e consegna (sempre per via aerea) di aiuti umanitari ai profughi. Nella giornata dell’8 agosto, i raid, in tutto, sono stati due. Due di numero. Gli F-18 hanno colpito due postazioni di artiglieria delle milizie dell’Isis. Il massimo dell’attività aerea si è registrato il 18 agosto, con 15 raid in una giornata. È comunque pochissimo secondo gli standard di una campagna aerea moderna. Questa auto-limitazione dell’attività bellica statunitense indica solo un approccio “tentativo” al conflitto, in assenza di una decisione politica vera e propria, di una strategia complessiva per affrontare l’Isis e una ricerca di alleati locali, curdi, ribelli siriani nemici dell’Isis, esercito regolare iracheno, giordani, sauditi, che potessero intervenire sul terreno. La difficoltà maggiore si è riscontrata proprio nell’assenza di alleati affidabili. Gli unici eserciti regolari in grado di combattere e sconfiggere l’Isis appartengono a nemici storici e attuali degli Usa: la Siria di Assad e l’Iran. Obama ha tassativamente escluso ogni collaborazione con il regime di Assad, lo stesso che a settembre voleva bombardare. Con l’Iran si è instaurata una tacita collaborazione in Iraq, ma non potrà mai esserci un’esplicita cobelligeranza: attirerebbe, come minimo, il veto dell’Arabia Saudita.

La Giordania e l’Arabia Saudita, piuttosto, non possono intervenire con forza per due ragioni molto semplici: temono di essere destabilizzate al loro interno (considerando che l’Isis ha molta presa nei loro ambienti più radicali) e in passato hanno direttamente o indirettamente contribuito alla nascita del movimento. I profughi siriani in Giordania hanno trovato modo di rientrare in patria e ingrossare le fila del futuro califfo Al Baghdadi. Duemilacinquecento sauditi sono partiti volontari per la Siria e la maggior parte di essi combatte per il Califfato. Ricchi donatori dell’Arabia Saudita, del Kuwait, del Qatar, aggirando divieti e controlli, hanno finanziato brigate di combattenti jihadisti in Siria che poi sono confluite nell’Isis. Il Libano teme di intervenire perché rischia lo scoppio di una guerra civile al suo interno, fra simpatizzanti dell’Isis e Hezbollah. La Turchia non può intervenire, perché una cinquantina di suoi cittadini sono nelle mani dei tagliagole dell’Isis e verrebbero uccisi in pubblico. E perché la stessa Turchia, dal 2011 al 2013, ha fatto da grande retrovia di tutti i movimenti della resistenza contro Assad, jihadisti inclusi. In mezzo a tutto ciò, in Iraq, i Peshmerga curdi appaiono come la forza combattente più solida e affidabile, ma mirano all’indipendenza. E questo attirerebbe le ire sia della Turchia che dello stesso governo iracheno. L’esercito iracheno, in compenso, continua a dimostrare di non essere in grado di combattere da solo. E, al suo interno, subisce la competizione serrata di milizie sciite. Controllate dall’Iran.

È chiaro, adesso, perché gli americani stentano a trovare una strategia? Se gli Usa sono indecisi, gli europei hanno ancora meno voglia di impegnarsi. Solo Regno Unito e Francia si sono dichiarate disponibili a fare qualcosa. Il presidente Hollande ha cercato di ricomporre un’alleanza internazionale anti-Isis con la conferenza di Parigi, tenutasi lunedì: 40 Paesi ospiti, assente l’Iran, assente la Siria, presente la Russia. Che però è in piena fase di braccio di ferro con gli Stati Uniti e l’Unione Europea a causa della crisi in Ucraina. In sintesi: né al vertice Nato nel Galles, né alla conferenza di Parigi si è riusciti a “trovare la quadra” di una coalizione anti-Isis.

Per intervenire in modo efficace contro il Califfato, occorre anche sapere quale sia la strategia del nemico, la sua natura, le sue intenzioni. E su questo il dibattito è ancora aperto. Secondo il re saudita Abdallah, gli jihadisti dell’Isis combattono in Oriente pensando all’Occidente. La loro stessa propaganda parla della conquista di Roma e pubblica in continuazione cartine sulla rinascita dell’Impero Arabo sotto la bandiera nera del califfo Al Baghdadi. Merah e Nemmouche, i terroristi islamici francesi che hanno commesso le stragi di Tolosa e Bruxelles, si erano fatti le ossa in Siria, in milizie che ora rientrano nel Califfato. La tesi del re saudita (che teme di perdere il trono sotto l’incalzare degli jihadisti vicini) non è dunque da scartare a priori. In base alle stesse fonti del Califfato, soprattutto la sua rivista Dabiq, l’israeliano Yigal Carmon, presidente del Middle East Media Research Institute, ha contestato la tesi saudita, constatando come l’obiettivo prioritario del califfo sia la costruzione dello Stato Islamico fra Iraq e Siria, poi la conquista dei Paesi limitrofi e solo in una terza fase, nel lungo periodo, l’attacco all’Occidente. Mentre Al Qaeda mirava ad esportare subito la rivoluzione e il terrorismo anche nelle nostre città, per l’Isis noi siamo solo l’ultimo premio. In questo quadro, un attacco occidentale al Califfato costringerebbe Al Baghdadi ad anticipare i tempi, con rappresaglie contro l’Occidente: sia contro gli ostaggi che ha nelle sue mani (come dimostrano le decapitazioni di James Foley, Steven Sotloff e David Haines), sia con l’organizzazione di attentati contro bersagli europei e americani. Questo è un altro fattore che spiega la riluttanza a intervenire e l’opposizione della Turchia, la nazione più esposta.

Che abbia ragione Abdallah (l’Isis mira a esportare la rivoluzione da subito) o Carmon (l’Isis vuol costruire il Califfato in un solo Paese), non sarebbe razionale una completa passività da parte di Usa ed Europa. Anche nella “migliore” delle ipotesi, assisteremmo alla nascita di un regime totalitario in Medio Oriente, pronto ad attaccarci non appena si doti delle armi e dei numeri necessari ad affrontarci. Faremmo come il pacifista descritto nell’aforismo di Winston Churchill: colui che dà da mangiare al coccodrillo sperando di essere divorato per ultimo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:20