Talk ad orologeria, come la giustizia

Misera la conta degli share tv. Povera la bisaccia della pubblicità. Ci si rifugia tutti nei talk perché costano meno di tutti. Ma che palle. E intanto c’è quella cosa; come si chiama, ah, la giustizia ad orologeria. La famosa entrata a gamba tesa. Una scaletta televisiva davvero emblematica quella di una giornata in cui le colpe dei figli sembrano cadere sulle teste dei padri, o viceversa? Boh. E tuttavia neppure il talk attira. E neppure l’orologio infallibile. E neppure la Scozia che, come il Veneto, resta dov’è.

Vi risparmiamo l’heri dicebamus perché siamo uomini di mondo (non) avendo fatto il militare a Cuneo. Però, però... Questa del crollo dell’audience anche dei talk-show non è un novità e non è neppure una cattiva notizia. È, semplicemente, il risultato di una somma di pigrizie e di opportunismi che ha condito le nostre tivù in una sorta di cul-de-sac dal quale non sanno come uscirne, a parte gli spettatori, che lo sanno e lo praticano benissimo: scappando. In un sistema televisivo come il nostro dove da mane a sera c’è un talk ad orologeria svizzera che sfrutta all’osso ogni spazio per approfondire tutto e l’opposto di tutto, ridendo e scherzando ma anche piangendo e urlando, dal delitto al castigo, per dire, che si può aggiungere?

Al cambiamento del clima politico dopo la vittoria a mani basse di Renzi - ma già con le larghe intese, poi interrotte, con Letta - era stato offerto dalle televisioni un controcanto meno furioso dei tempi di Monti e Grillo, Ruby, Trota e Belsito. E ci scusiamo della voluta confusione di capitoli alti e bassi e bassissimi, ma tali furono i target su cui tutte ma proprio tutte le televisioni si buttarono nelle acque limacciose della politica onde trarne stracci sempre più lividi da sbatterci in faccia. I target erano le facce politiche da colpire con frecce onde trarre sangue umano da vampirescamente ingozzare il pubblico della piazza fra un “vaffa” e un forcone. Erano tutti così i talk-show, ovviamente a cominciare da La7, non a caso, all news per finire alla new entry Rete 4 con la piazzaiolissima “Quinta Colonna” di deldebbiana memoria. Erano tutti uguali. Poi la quiete dopo la vittoria, e dopo la rottura con Letta. Qualche bagliore grillino baluginava ancora, appoggiandosi agli ultimi sospiri civatiani, mentre il cronoprogramma delle riforme a la carte chez Renzi imponeva ai talk la regola dei masterchef più che dei “vaffa”. In effetti, fra un talk e l’altro, non è facile una distinzione netta. Forse si salva solo il salotto di Vespa, che è, appunto, un salotto dove al massimo, vedi l’altra sera, era tutto un tripudio di gridolini, un mix femmineo, fra il bianco e il rosa, fra il dico e il non dico, un sorrisetto e una frecciatina a proposito delle belle ministre e dei loro bikini e/o topless mentre sulla punta della lingua del conduttore era sempre lì lì per uscire l’antica ammonizione della nonna: cara, non si può essere incinte a metà.

Ecco, senza più sviarci, ci restano ormai le cifre austere e fredde dell’audience. Rimangono i dati impietosi dello share, le incertezze della Lilli Gruber (è malata, afona, incazzata? Ritorna o va via?) la sua sostituzione con il capo assoluto delle news di La7, quel Mentana che vorrebbe mitragliare come ai bei tempi del manipulitismo d’assalto, ma sente un freno misterioso, un’arcana vocina di prudenza cosicché, all'avviso di garanzia del babbo di Renzi, è tutto un arrabattarsi in studio, dietro l’orologeria dei masterchef del Palazzaccio o davanti ai dati dell’Ocse in appoggio al premier rottamatore dell’articolo18 che si difende dagli azzanni senza denti dei sindacati.

Forse per l’oscura paura di quell’infallibile e implacabile orologeria giudiziaria, sul resto delle tivù si spandeva, l’altra sera, la giocosa e innocua carnevalata del referendum scozzese, inteso dalle nostre tivù come una partita notturna di volley su una spiaggia di ubriaconi, salvo qualche collegamento con un lucido e sconsolato Cacciari che si dimette dal talk-show mandando al diavolo conduttori, esperti di “no euro”, e veneti in fregola di secessione, mentre intellettuali meridionali, fra cui un simpaticissimo Mastella, se la ridono sotto i baffi. Impietose le cifre degli ascolti, ci ricordano alcune leggi, che non sono soltanto del medium, ma della convivenza civile. Siamo un Paese in mezzo al guado dove, tra l’altro, i binari da seguire non sono molteplici e le vie di fuga sono precluse ai furbi. L’orologio biologico è spesso confuso con quello degli avvisi di garanzia. E la tv della polis si è tradotta, essenzialmente, in una lunga, ampia, infinita, noiosa, indistinguibile e vociferante partita di ping-pong, di idea contro idea, parolaccia contro parolaccia, minaccia contro minaccia, con un finto arbitro che si intromette di tanto in tanto e gode dell’accavallamento delle parole in funzione della loro misteriosa incomprensibilità.

Può essere un gioco al massacro per chi ci sta. Può essere un gioco pericoloso in cerca di un rifugio nell’ultimo ridotto di una televisione sempre più spezzettata. Può essere il ritorno al sempre uguale, e lo è stato (ma con poco share) da Floris, dove le stesse premesse di Crozza sono così così e quelle del duo Giannini-Benigni fanno sbadigliare. È un gioco fine a se stesso, diciamocelo. In un Paese che non ha più voglia di giocare. Neppure con la tivù. E quell’orologio speciale è sempre esatto.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:19