La “Farnesina” e l’anomala diarchia

Apparentemente il dilemma era la scelta del criterio con cui identificare la figura del perfetto ministro degli Esteri in sostituzione della Mogherini volata in Europa.

Dunque, non si doveva stabilire se aveva ragione il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che voleva adottare il criterio di genere per rispettare il rapporto paritario tra donne e uomini esistente nel Governo e sostituire la ministra uscente con una persona di sesso femminile. O se la ragione era dalla parte del Presidente della Repubblica che al criterio di genere preferiva quello del merito e pensava che un ministro degli Esteri dovesse essere innanzitutto un soggetto esperto ed adeguato al compito che lo aspetta.

Se così fosse stata, la questione avrebbe potuto essere risolta mettendo insieme i due criteri e cercando una donna provvista dell’esperienza e dell’autorevolezza voluta dal capo dello Stato. Ma il problema non era il criterio da adottare per la sostituzione della Mogherini. Era e rimane il conflitto tra i due diversi presidenzialismi, quello di Napolitano e quello di Renzi, che si sono venuti a creare a dispetto delle norme formali della Costituzione e che, dopo una fase di convivenza e di collaborazione, entrano in conflitto su una questione di potere e di gerarchia tra ruoli altrettanto anomali.

La regola costituzionale vuole che i ministri vengano nominati dal Presidente della Repubblica ma scelti dal Presidente del Consiglio. La prassi consolidata del Presidenzialismo quirinalizio della Costituzione materiale ha invece da tempo stabilito che il capo dello Stato debba avere sempre e comunque l’ultima parola sulla selezione della squadra di Governo. Da Scalfaro fino ad arrivare a Napolitano quest’anomalia costituzionale non ha trovato opposizioni di sorta.

Ma da quando al presidenzialismo di fatto del Quirinale si è affiancato, con l’avvento di Renzi alla guida del governo, il presidenzialismo materiale (o premierato, che dir si voglia) di Palazzo Chigi, la convivenza tra le due istituzioni è diventato il problema della convivenza che si pone in tutte le diarchie.

Fino ad ora, a parte qualche incomprensione e difficoltà iniziale, la convivenza è stata tranquilla e senza conflitti. Ma adesso il nodo delle due anomalie arriva al pettine. Perché a scontrarsi non sono solo i criteri di genere e di merito, ma i poteri che l’uno e l’altro dei diarchi pretendono di avere ed a cui non intendono minimamente rinunciare. Nel caso della Farnesina Napolitano voleva usare i suoi poteri per far prevalere una scelta di semplice buon senso ispirata all’idea di governo tradizionale che ha introiettato nella sua lunghissima carriera politica. Ma a questo buon senso da Prima Repubblica Renzi non poteva non opporre la sua idea del proprio presidenzialismo di stampo plebiscitario, che lo spinge a rivendicare sempre e comunque di non essere il primus inter pares nel Governo, ma l’unico e solo depositario del potere esecutivo del Paese. Tanto più per la scelta del ministro degli Esteri che, nella concezione presidenzialista di Renzi, diventa l’occasione perché il capo del Governo possa rivendicare a se stesso il ruolo di rappresentante del Paese all’estero e punti su un ministro degli Esteri destinato a fargli da semplice accompagnatore e che non possa in alcun caso fargli ombra.

Nessuno dubitava che nel conflitto si potesse trovare una soluzione di compromesso. Come infatti è avvenuto con la nomina di Paolo Gentiloni, che non è donna e neppure un esperto di politica estera ma che è un fedelissimo renziano della prima ora, caratteristica che ha messo d’accordo sia Renzi che Napolitano. Ma la vicenda è servita a sollevare il problema del doppio presidenzialismo non codificato. Ed a far rilevare come uno dei segni del declino del Paese sia proprio quello di non avere memoria storica ed aver dimenticato che le diarchie tra Re e Duce finiscono sempre male!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:29