L’infarto emiliano  “chiama” Bersani

Matteo Renzi può anche fare finta di nulla applicando la regola che gli astenuti non contano, ma la diserzione alle urne emiliane rappresenta per lui più di un campanello d’allarme. È sicuramente il segnale che il voto semi-plebiscitario in suo favore registrato alle ultime elezioni europee è un lontano ricordo. E che il suo palloncino incomincia pericolosamente a perdere quota. Ma è soprattutto la dimostrazione che il cuore rosso del partito, quello che da decenni e decenni non perde mai un appuntamento con una tornata elettorale per ribadire una tenuta ed un consenso perinde ac cadaver, non ha alcuna intenzione di continuare a battere per chi lo guida con il dichiarato intento di farne uno strumento esclusivamente personale.

In questa luce le regionali emiliane equivalgono ad una nuova tornata di primarie all’interno del Partito Democratico. Che il segretario ha perso in maniera clamorosa e che i suoi avversari non si possono intestare solo perché non hanno un leader in grado di catalizzare la spinta della base.

Può essere che in altre regioni d’Italia questa frattura tra il cuore del partito e Renzi non esista o sia meno rilevante di quella verificatasi in Emilia Romagna. Il voto calabrese lascia intendere che anche nel resto del paese il fossato tra il segretario ed il proprio partito si stia allargando. Ma la diserzione di massa emiliano-romagnola rappresenta un evento epocale per il partito che ha ereditato il lascito del Pci e del cattolicesimo democratico e che da settant’anni ha trasformato quella regione nel risultato vivente della via italiana al socialismo.

Nel suo apparente delirio di onnipotenza Renzi può anche festeggiare il mantenimento della quota quaranta per il Pd, ma non può ignorare che il quaranta di cui parla è solo una percentuale ridotta del terzo degli elettori che è andato a votare. Cioè che la quota reale del suo partito si aggira attorno al venti per cento del corpo elettorale, cifra con cui si può contribuire a formare un governo di coalizione in un sistema proporzionale ma non si può pensare di creare un regime plebiscitario fondato sul monopartitismo del leader maximo.

In questa luce è facile immaginare che il percorso della riforma della legge elettorale non potrà non essere condizionato dall’“infarto emiliano” del Pd renziano. L’idea di assicurare il premio di maggioranza ad una lista che ottenga solo il venti per cento del corpo elettorale è una follia pura. Ed è auspicabile che le forze politiche di maggioranza e di opposizione, in primo luogo Forza Italia, impediscano a Renzi di compiere un passo del genere. Ma è soprattutto all’interno del Pd che il voto emiliano non può non rimanere senza conseguenze.

L’infarto che ha colpito il cuore rosso del partito può essere fronteggiato solo con un intervento immediato. E questo intervento spetta obbligatoriamente a chi si è identificato e si identifica nel socialismo reale all’italiana presente nella regione dal secondo dopoguerra ad oggi. Non tanto per salvare il Pd dall’involuzione cesarista del Peron alla fiorentina, quanto per salvare almeno un pezzo, quello più significativo, di una “ditta” in via di progressivo smantellamento.

Il voto emiliano, in sostanza, chiama in causa direttamente Pierluigi Bersani. Che non può rimanere immobile di fronte allo sgretolamento del modello politico a cui ha dedicato la propria vita. E che è chiamato a compiere una operazione chirurgica sicuramente difficile, dolorosa ed azzardata, ma che l’unica in grado di evitare il passaggio dall’infarto alla scomparsa. Se quel cuore vuole sopravvivere, in sostanza, si deve separare da chi lo vuole comunque rottamare.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:21