La polarizzazione che <br/> vorrebbero i “Mattei”

Vince chi va in televisione e chi su Twitter, si dice in giro. Matteo Renzi dilaga sicuramente in tivù (come l’altro Matteo, del resto, che ha però scarpinato in tutta la regione del rosso antico che fu), ma ha il brutto vezzo di commentare twittando. Il fatto è che con una frase sintetica, apodittica, vagamente dantesca, alla “Minosse”, col suo “giudica e manda”, liquida la questione proclamando la vittoria per due a zero e l’asfaltatura del Cavaliere da parte di Salvini. Costui, di rimando, lo infilza, sgonfiandogli il pallone cui somiglia, parole testuali ma, in un caso come nell’altro, indicative della linea comune adottata da entrambi: la polarizzazione dei due Mattei, sinistra contro destra, “face to face”, e con un supporto della televisione che per i due è stata (e sarà) l’arma preferita.

Intendiamoci: sono state elezioni parziali, regionali e senza alternative politiche, nel senso che sia in Emilia che in Calabria il vincitore era già segnato. Il problema semmai è l’insegnamento da trarne, sia pure coi limiti di cui sopra, ma anche con le novità. C’è una parabola che sale, quella del Matteo milanese. La novità Salvini è la più esplosiva, anche se non del tutto inaspettata rimembrandolo a zonzo per l’etere nell’ultimo mese con le parole d’ordine consuete. Tuttavia si porta con sé una forte impressione di cambio di passo nel futuro del centrodestra, in particolare nei rapporti fra Lega e Forza Italia. Fermo restando che la vittoria del Matteo nordico è squillante, però... Però, come si diceva prima delle elezioni, la Lega dovrà porsi il problema del che fare, del “dopo”, di come svilupperà il significato di un successo chiaramente di destra e di protesta, evidente peraltro in Emilia Romagna e non in Calabria. Dove, per inciso, ha tenuto il Nuovo Centrodestra.

Salvini ha ripreso i voti che Beppe Grillo aveva sottratto alla Lega e vi ha aggiunto quelli caduti dalla vecchia quercia berlusconiana alla quale si porranno gli stessi interrogativi, ma rovesciati, di Salvini. A cominciare dalla banale constatazione che divisi si perde. Analogo discorso riguarda la combattiva Giorgia Meloni la quale, tuttavia, è più facilitata per la sua tradizionale posizione di destra nazionale dove, semmai, sarebbe lei a rimproverare a Salvini le sue, di costui, indimenticabili sparate antitaliane, secessioniste, nordiste, ecc.

Certo, il Cavaliere avrà a che fare con i mal di pancia dei vari Raffaele Fitto, fermo restando che il problema travalica Fitto: è un problema politico, di politica interna e internazionale (Europa, Putin, Euro, ecc.) con tutta la gravità di scelte che il termine comporta, in primis col mitico Nazareno e, contestualmente, con lo scenario economico, dal lavoro alla stabilità alle tasse di cui la vulgata di Renato Brunetta è piena di proposte alternative al renzismo spesso superficialmente ottimistico. Renzi, dunque. Che abbia vinto, è fuori discussione. Il prezzo pagato in Emilia dove l’astensionismo ha marcato fortemente il disincanto della tradizionale sinistra emiliana colpita e segnata certamente dalle inchieste giudiziarie - quando mai certi pubblici ministeri non sono entrati a gamba tesa nelle elezioni? - ma anche dalle conflittualità correntizie accentuate dall’irruenza renziana su cui grava la scelta dello sciopero di una Cgil i cui “aficionados” emiliani hanno disertato le urne se non, addirittura, hanno optato per la radicalità della proposta salviniana. Non va tuttavia dimenticato un aspetto di quella Emilia Romagna devastata dal terremoto, in preda ad una ricostruzione difficile, su cui gli interventi statali brillano più per l’esosità puntuale del fisco che per le provvidenze indispensabili ad una ripresa industriale connotata, spesso, da un rapporto privilegiato con la Russia, bruscamente interrotto dalle sanzioni.

Non a caso Salvini ha girato in lungo e in largo, paese per paese, fabbrica per fabbrica, a volte col nome magico di Putin sulla punta della lingua. Grillo è scomparso salvo un “tête a tête” con quattro gatti a Bologna, dove pure era schizzata su la sua parabola del vaffa. Anche Renzi ha compiuto i suoi tour ma gli resta addosso il fardello dei nodi irrisolti dopo le molte promesse di cui resta quella degli ottanta euro, in parte decisivi per il successo europeo. Successo che appare già lontano, appartenente ad un’altra epoca, soverchiato dalla quotidianità di un’azione di governo sempre sull’orlo del pantano, delle sabbie mobili di un sistema paralizzante, corporativo, conservatore più a sinistra che a destra, vischioso e oppressivo di tasse. In mezzo il Governo del Jobs act divisivo a sinistra ma salvifico, come dice il Premier.

Il punto dolente è proprio questo, del fare, a parte le riforme istituzionali di un Italicum a singhiozzo e ora a rischio. E non si capisce perché i due neocostituenti Matteo e Silvio, soprattutto Silvio, non lancino l’idea di una repubblica presidenziale e di una riforma profonda in tal senso, una necessità che è resa evidentissima dallo scenario inconcludente che abbiamo di fronte, l’unica che darebbe una via d’uscita a un’inimmaginabile implosione del sistema.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 16:36