I cinguettii al veleno del nostro Premier

Crisi dei talk-show? Urca! Noia mortale nel gioco delle previsioni quirinalizie? Perbacco! Tweet al veleno di Matteo Renzi vs Corrado Formigli? Si capisce! E poi, tutta la serata del martedì televisivo spalmata di dilazionamenti delle previsioni? Alla grande! E via così. Certo è che la battaglia nell’etere delle scommesse fasulle e a costo quasi zero si è infiammata lunedì sera col messaggio piccato di un Premier “snobbone” dei talk (ancorché usufruttuario degli stessi). A Renzi doveva davvero “sfrucugliargli” in testa la scheggia per trovare parolette infuocate tipo “balle spaziali, trame, segreti, finti scoop e retropensieri” come ingredienti di una zuppa indigesta al punto tale da sancire “la crisi dei talk show in Italia”. Renzi “dixit” ma non solo lui, intendiamoci. Che è l’inizio della fine della chiacchierata televisiva era in evidenza da mo’, basta seguire l’implacabile auditel.

Ma a questo processo di sfaldamento d’ascolti ha contribuito qualcosa che prima non c’era più, un quid che sembrava travolto sotto la caterva di parole e di insulti in libertà dei pugilatori sul ring televisivo. Un quid che si chiama politica. La politica è il terzo incomodo che si è affacciato nello spettacolo ormai esausto che ha impiombato - nel senso di renderlo plumbeo - il cosiddetto dibattito. La politica che ritorna è la nuova protagonista della narrazione vera che non è più quella dei talk show. Pretendere infatti che da quella specie di borsino quotidiano dei candidati potesse uscire qualcosa, un nome, un’indicazione, un marchio, una garanzia, era davvero un pio desiderio inseguito dai conduttori a loro volta pressati dai pugilatori ma, tutti insieme, distratti da quell’affacciarsi del quid che, lento ma implacabile, ha cominciato a dettare i suoi tempi e le sue condizioni. Il capovolgimento della situazione, ecco la sorpresa nell’uovo di questa elezione, per ora solo televisiva, del nuovo inquilino del Colle. Un rovesciamento rispetto alla riconferma faticosa ma obbligata di Re Giorgio il quale ha impresso una velocità al ribaltamento, infilzando, soprattutto, la tecnica grillina d’antan la cui crisi irreversibile è datata da allora, da quando minacciò l’apriscatole del Parlamento e, soprattutto, da quando giocò con le quirinarie.

Un gioco dei fiammiferi che hanno combusto, in un colpo solo, la credibilità della coppia Grillo-Casaleggio, quella di Pier Luigi Bersani e, in ultimo, quella dei talk buttatisi sulla scia dell’imminente apocalisse che, invece, stava rientrando un po’ come la grande nevicata epocale su New York. Certo, è arrivato Renzi col suo ingannatore e velenoso “staiserenoEnrico”, certo, le triviali intemerate grilline si sono tramutate in boomerang per i grillini dentro e fuori il Parlamento, certo, la vittoria renziana alle europee ha segnato un traguardo storico. Ma è proprio dal e col Nazareno che il ritorno del quid assente e nascosto ha potuto inverarsi. È da lì che tutto il panorama della “Polis” italiana ha dovuto fare i conti. Il patto ha di colpo reso inutile Beppe Grillo che già da solo ci stava riuscendo con quella sua “Rete” tramutata in moderno “Santo Uffizio” capace solo di espellere perché incapace di condividere le regole ferree della Civitas temendone, ridicolmente, le contaminazioni.

Il patto ha ridestato in Silvio Berlusconi la voglia non solo di esserci ma di partecipare da coprotagonista ad un percorso “istituzional-riformatore”, alla faccia delle condanne e dell’ingiustissima e illegittima cacciata dal Senato. Nel frattempo, Renzi ci ha messo molto, a volte troppo, del suo per restaurare nel Paese quell’affresco che sembrava dissolversi sotto i colpi dell’antipolitica cavalcata forsennatamente da certi talk show, a loro volta incappati nella delusione che il loro giochino si consumasse in fretta e, dunque, tesi ogn’or di più a sfruttarne le ultime cartucce, gli ultimi fuochi. Consumatisi in queste settimane, già prima delle dimissioni annunciate, in un’estenuazione ripetitiva di un mercato azionario dei candidati che corrispondeva seccato al silenzio di chi aveva ed ha in mano il pallino politico, e che sa come condurre le danze.

Il silenzio è d’oro quando si deve decidere. Questa è una legge scritta nel bronzo quando, ovviamente, è il punto di riferimento di una classe dirigente degna di questo nome, che non ha paura della riservatezza scambiata strumentalmente per opacità, quando, al contrario, è la “condicio sine qua non” per qualsiasi opzione di spessore politico. E a chi reclama la trasparenza dal palcoscenico dei talk dove va in onda la visibilità a poco prezzo, salvo quella della credibilità, è inevitabile che giunga, come un sasso nello stagno o il morso di un barracuda, un tweet al veleno.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:10