Nel Canale di Sicilia: zampata dei gattopardi

Altri 700 morti la scorsa domenica nel Canale di Sicilia. Forse di più. È una tragedia che alla gente comune spezza il fiato in gola. E i nostri governanti cosa fanno? Sognano di un’Europa “Neverland”, che non esiste. Continuano a discutere come se l’Ue fosse quella delle grandi speranze alla Dickens, rifiutando di comprendere che invece è altro. L’hanno prima immaginata come un grande bancomat dal quale attingere risorse economiche illimitate, poi come un immenso Bengodi per tutta l’umanità dolente e maltrattata che c’è in giro per il mondo.

Si vuole tornare con i piedi in terra? Stanno a Palazzo Chigi e al Viminale, ma sembra che stiano sulla luna. Hanno riunito un vertice d’emergenza e non hanno deciso niente. Non sanno che pesci prendere. Dicono di voler rinegoziare il trattato di Dublino sulle regole dell’accoglienza dei migranti come se la cosa dipendesse solo dall’Italia. Illusi. Nessun paese membro, particolarmente quelli dell’area settentrionale dell’Unione, acconsentirà ad un cambiamento delle regole del gioco. Si tratta di società evolute ma demograficamente ridotte che non hanno alcuna intenzione di ritrovarsi, nel volgere di qualche anno, destabilizzate per gli effetti di un’invasione incontrollata.

L’operazione “Triton” organizzata dall’Agenzia europea Frontex non è come la racconta Alfano: una vittoria italiana. È stata programmata dall’Ue, al posto di “Mare Nostrum”, come azione di contenimento, non di espansione, dei flussi migratori. Il ragionamento degli altri partner è semplice e logico: se voi italiani volete fare accoglienza umanitaria illimitata è un vostro diritto, ma non potete pretendere che vi si tenga bordone in una scelta insensata. Quindi, arrangiatevi! Altrove vige il ferreo principio della sostenibilità che vuol dire: si fa ciò che ci si può permettere di fare. Dalle nostre parti, invece, si persevera nell’errore di credere che si possa fare i gradassi con i soldi o sulle spalle dei partner. Game Over! Non è più consentito di giocare ai buoni samaritani con le tasche altrui. Sano principio cristiano di ascendenza calvinista.

Resta l’unica opzione possibile: l’intervento militare. Bisogna attuare il blocco navale e provvedere, con azioni mirate, a distruggere le carrette della disperazione attraccate nei porti libici. È giunto il momento di inviare un primo contingente specializzato allo scopo di contrastare con azioni di polizia tutti i traffici illeciti, non soltanto quello di esseri umani, che alimentano le finanze dei clan in guerra. E dell’Is. Bisogna trovare dei volonterosi disponibili ad affiancare l’Italia in un compito pericolosissimo. Bisogna che il pragmatismo della realpolitik prenda il sopravvento. Obama ci ha scaricato? Ha detto che della Libia non vuole sentire parlare? Benissimo! Chiediamo a Putin cosa ne pensa lui. Abbiamo fatto per nove anni esercitazioni navali congiunte con la flotta russa proprio per contrastare il terrorismo e la pirateria in mare, sarebbe il caso di mettere in pratica ciò che i nostri comandi militari hanno imparato con l’operazione Ioniex. Egitto e Algeria non chiedono altro. Arabia Saudita, Turchia, Sudan e Qatar hanno usato la crisi libica per regolare i loro conti. Piuttosto che soffiare sul fuoco della guerra per l’egemonia nell’universo sunnita, diano una mano a rimettere insieme i cocci della nazione libica.

Francia e Gran Bretagna oggi dove sono? Sappiamo bene dov’erano quando si è trattato, nel 2011, di mandare tutto a carte quarantotto. Se il governo italiano non trova il coraggio di agire non resterà altro da fare che la conta infinita dei disgraziati che continueranno a morire. Ma queste morti non sono figlie di nessuno. Recano l’impronta dei tanti gattopardi che si aggirano da questa e dall’altra parte del Mediterraneo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:13