Se i due “Mattei” non dicono la verità

La capacità del linguaggio umano è davvero sovrumana, basta farci caso, basta guardare la tivù, per dire. Il linguaggio, specialmente quello politico, mostra uguaglianze e discrepanze su uno sfondo uguale, o viceversa. È l’affrontare la complessità del mondo riducendola al format del dibattito politico (cioè in televisione) che inganna, che abbaglia e che, alla fine, non riesce mai a porre al cittadino la questione nella sua effettiva consistenza.

Matteo Renzi e Matteo Salvini sono (o sembrano) l’uno contro l’altro armati, ché le torte in faccia che si scagliano a vicenda adombrano, a volte, l’infantile guerra dei bottoni; mentre altre volte paiono colpi di mortaio di insulti, soprattutto inviati da Salvini, dei quali l’escalation eventuale condurrebbe lo sparatore ad un climax francamente sanguinolento e parolacciaro, degno invero di una suburbia da basso impero. Ma il punto è un altro. Ed è proprio il linguaggio di entrambi che spesso fa da indicatore al subconscio che si disvela, pur rimando esposto, squadernato davanti, come nel racconto famoso della lettera nascosta, cioè bene in vista. In occasione dell’invasione dei “migrantes”, la televisione, cioè la politica tout court, ha offerto un inverecondo blob di proteste, promesse, impegni, minacce, ipotesi, interventi, incontri al vertice, coinvolgimenti europei e internazionali in una sarabanda di parole che s’inseguivano come tacchini arrochiti mentre colavano a picco barconi carichi di un’umanità, cioè di persone come noi, senz’altra speranza che lasciare per sempre la distruzione di tutto ciò in cui avevano vissuto e creduto: la patria, la città, il Paese, i propri morti, la casa, gli affetti, la stessa identità, tutto buttato via, alle spalle.

Nel clou della sparate fra i due Mattei, c’è da rilevare che Salvini - ben diversa è l’impostazione da coesione-nazione di Berlusconi - ha dalla sua l’improntitudine a basso costo dell’opposizione senza se e senza ma, a muso duro e a testa bassa per via della concorrenza a sinistra di un Grillo che è pur sempre (s)parlante e, al centro del potere renziano, dell’obbligatorietà dell’azione verbale contro l’avversario che non è da meno sul piano della replica immediata, con soluzioni incorporate ancorché annunciate. Il fatto è che entrambi i Mattei sono tanto scafati nella tecnica dell’annuncio quanto silenti sull’offerta delle soluzioni e non si accorgono che, nel crescendo delle ingiurie salviniane come nelle miracolistiche profferte renziane, partono entrambi dalla stessa considerazione. Dicono, incredibili dictu, la stessa cosa. Quando infatti proclamano insieme la necessità del blocco navale contro la Libia, ancorché temperato dalla necessaria eliminazione chirurgica (coi droni, tipo quelli obamiani...) dell’affondamento dei barconi prima di partire, affermano né più né meno che l’identica tecnica, la medesima strategia militare, peraltro l’unica possibile. Dicono la stessa cosa. Il loro format parte dall’identica retorica.

Fa propaganda Salvini, dimentico della sua Lega che con Maroni firmò il trattato di Dublino che penalizza il primo Paese, cioè il nostro, che riceve profughi e naufraghi a migliaia. Gli rispondono con doviziosa abilità gli spot di Renzi lo smemorato delle colpe dei democratici che massacrarono Gheddafi e se ne andarono fischiettando lasciando le macerie libiche tuttora fumanti. Ma per Renzi la faccenda è più seria, al di là degli spot e della stessa buona volontà degli incontri europei, peraltro avari di concrete ipotesi. Renzi, semmai, ha provato su se stesso, in questi giorni di vertici Ue, il peso della distanza, del gap, fra la realtà e le promesse, fra la propaganda e la storia. Fra il dire e il fare c’è sempre, immanente e ineludibile, la verità. Il vero, il reale che si svolge, la storia che fluisce. Ecco, a Renzi e pure ai willings europei, fa difetto quel principio di leadership (ricordate il Churchill delle lacrime e sangue?), di guida, di indicazione ferma e irriducibile che necessita a chi comanda in una situazione come questa. Che non è un’emergenza, ma una condizione stabile e duratura, sanguinosa e tragica. Bisogna dire la verità agli italiani, e non solo. Che c’è una guerra in parti del mondo i cui scampati finiscono in una Libia, senza governo, per raggiungere l’Italia costi quel che costi. Prima cosa: stabilire in quel Paese un esecutivo, altrimenti né droni né blocchi navali serviranno a qualcosa, anzi. Poi, che le guerre lontane, se non sistemate, si avvicinano con il procedere implacabile dei tagliagole dell’Isis, che si devono combattere, e ci vogliono eserciti, soldati, marinai, corpi speciali, portaerei, elicotteri, missili e computers.

È la guerra. E sarà una faccenda lunga, molto lunga. La verità come dice una canzonetta, fa male. Ma, prima o poi, va detta. E, soprattutto, non è più l’armiamoci e partite.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:10