Se anche i moderati alla fine dicono “no”

A margine del risultato greco, in Italia ha destato scandalo l’entusiasmo di alcuni esponenti del centrodestra tradizionale per la vittoria del “no”. Stando ai numeri non si può dare torto a coloro che vedono nel gioco che sta conducendo Alexis Tsipras una micidiale trappola piazzata sulla strada della stabilità monetaria dell’Unione europea. Chiedere ai partner europei di continuare a finanziare il debito di Atene senza impegnarsi seriamente in un programma di riforme sostanziali che mirino a ridurre gli sprechi e le iniquità presenti nel sistema greco, non è accettabile. Tuttavia, la pagina domenicale di democrazia referendaria offertaci dai cugini ellenici restituisce altro rispetto alla sola contabilità dei sacrifici da negoziare. Dalla notte dei risultati, non la sola Grecia ma l’intera Unione s’interroga sul futuro. Ovviamente dandosi risposte diverse. È in questa chiave che va interpretato l’entusiasmo di molti del centrodestra italiano per il “no” greco.

La questione di fondo riguarda il futuro dell’Europa che vogliamo. Si fa un bel dire che: “Ci vuole più Europa”. È una frase che non vale niente se non è sostanziata di contenuto. A chiacchiere la pensiamo tutti allo stesso modo, ma quando si tratta di scendere nel concreto le cose si fanno complicate. Si prenda il caso del processo d’integrazione politica dei Paesi dell’Ue. Al momento è fermo nel guado. Completarlo sarebbe la realizzazione di un sogno antico appartenuto tanto alla sinistra quanto alla destra. Ma se dovessimo immaginare uno scenario nel quale la conduzione di un’entità complessa di dimensioni sovranazionali dovesse essere affidata all’arbitrio di un blocco egemone orientato a privilegiare interessi di parte in danno di quelli collettivi, come accade oggi, sarebbe più di una iattura: sarebbe un disastro.

Una quota di cittadini europei non ha mai smesso di nutrire sospetti nei confronti di una guida politica posta nelle mani di una Germania riunificata e nuovamente potente dal punto di vista industriale. Il compianto Giulio Andreotti era solito affermare, tra il serio e il faceto, “mi sento più tranquillo se le due Germanie restano separate, perché i tedeschi quando sono tutti insieme non si sa che combinano”. Nello scorso secolo, quando si sono realizzate condizioni di scenario non lontane da quelle attuali, si è finiti molto male con due conflitti mondiali devastanti. Oggi le politiche aggressive volute da Berlino preoccupano per gli effetti gravissimi che producono non soltanto sul fronte economico ma, più in generale, sugli assetti geopolitici. Se la strada giusta non può essere quella di mettere tutto il potere nelle mani di una élite non selezionata attraverso nitidi processi democratici, perché allora non puntare, alla luce dell’esperimento greco, su un maggiore coinvolgimento dei popoli nelle scelte fondamentali delle politiche comunitarie? Interpellare i cittadini non è un crimine di lesa maestà e neppure una deminutio capitis per le classi dirigenti.

Nel contesto italiano, poi, il rinvio alla volontà popolare sarebbe particolarmente salutare. Dopo gli anni dei “governi dei non eletti” raccogliere il consenso, o il dissenso, sulla validità degli odierni trattati che vincolano il nostro Paese alle decisioni prese a Bruxelles sarebbe un modo efficace per allentare la tensione che si sta accumulando nella società. Preveniamo l’obiezione: la nostra legge costituzionale non lo consente. Allora perché non cambiare una norma inappropriata? Ci si deve scannare soltanto per decidere come spedire i prescelti nel nuovo Senato? Si tratta di avere coraggio e di fidarsi del buon senso degli italiani. Di tutto si può aver paura, ma non di un popolo che faccia sentire la sua voce.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:12