Israele non tifa per il terrorismo

Lo scorso 30 luglio il piccolo Ali Saad Dawabsheh, palestinese di 18 mesi, è arso vivo nel villaggio di Duma, a sud di Nablus in Cisgiordania, in un incendio appiccato da quattro coloni israeliani. Si è trattato di un atto criminale ignobile prodotto dal terrorismo ultranazionalista ebraico, della cui gravità ha parlato senza mezzi termini il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Parimenti, il popolo israeliano ha chiesto giustizia per Ali Saad perché la logica di un altro tipo d’integralismo, uguale e contrario a quello islamico, non faccia breccia nel tessuto di una società civile autenticamente democratica e tollerante.

Gli israeliani non sono come i palestinesi. Non traggono soddisfazione dalle azioni criminali compiute in danno di pacifici cittadini, sebbene non ebrei. A differenza dei palestinesi, essi non chiamano eroi coloro che si macchiano di delitti orrendi. Non intestano loro piazze e strade. Netanyahu in persona ha dichiarato che userà il pugno di ferro contro gli attentatori di Duma. Gli si creda. Il problema resta la controparte palestinese che, attraverso i suoi vertici, non ha perso occasione per rinfocolare la polemica antisraeliana, volendo sfruttare il fattore emozionale scatenato dall’orrendo crimine.

Il presidente dell’Anp, Abu Mazen, ha commesso l’ennesimo errore politico. Piuttosto che cogliere l’opportunità offerta da un odioso fatto di sangue per rilanciare il processo di pace, egli ha preferito puntare sulla carta del coinvolgimento della comunità internazionale nella speranza di provocare l’isolamento del governo israeliano. Nabil Abu Rudeina, portavoce del presidente dell’Autorità Palestinese, ha dichiarato che l’uccisione del piccolo Ali Saad Dawabsheh sarà uno dei temi principali da portare alla Corte Penale Internazionale contro Israele. Il capo dei palestinesi, ancora una volta, cerca scorciatoie per evitare la strada maestra del negoziato. Come ha fatto all’indomani degli incidenti alla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, chiedendo una convocazione urgente della Lega Araba per il prossimo 5 agosto. All’ordine del giorno: “L’escalation israeliana”. Non caverà un ragno dal buco. Pensa davvero Abu Mazen di conquistare alla sua causa i governi dei Paesi musulmani? È assai poco probabile che ciò avverrà visto il mutato scenario geopolitico degli ultimi mesi. Da qualche tempo si è creato un asse invisibile tra Israele e i governi ispirati all’Islam sunnita allarmati dalla crescita del peso politico dell’Iran sciita. Preoccupazione che è aumentata dopo la sottoscrizione degli accordi di Vienna sul nucleare iraniano. Il giudizio negativo su quanto accaduto tra le potenze globali e Teheran accomuna Gerusalemme al Cairo, ad Amman ma anche a Riyad, ad Abu Dhabi ed a Doha.

Inoltre, resta sullo sfondo la questione della presenza dell’Is - lo Stato Islamico - in Siria, in Iraq e oggi nel Sinai. L’Egitto di al-Sisi ha bisogno del pieno sostegno dell’intelligence israeliana per fare fronte ad un pericolosissimo rischio di saldatura tra le diverse fazioni dell’integralismo jihadista contro le quali il nuovo uomo forte del Cairo sta testando la sua tenuta interna e la credibilità agli occhi della comunità internazionale.

Abu Mazen si è rifugiato in un pericoloso cerchiobottismo tattico. Da un lato, non chiude tutti i ponti con la controparte israeliana, dall’altro non vuol dare la sensazione a quelli che all’interno dei territori amministrati dall’Anp la pensano come Hamas di cedere davanti al nemico. Per costoro la cancellazione d’Israele dalla carta geografica del Medioriente resta obiettivo irrinunciabile. Abu Mazen ha il diritto di piangere la sua piccola vittima ma dovrebbe, per onestà, dire qualcosa di definitivo sullo stillicidio di attacchi quotidiani provocati dai palestinesi contro civili israeliani. Con tanto di morti e feriti. Ma la sua bilancia è guasta: pende sempre e solo dalla stessa parte.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:14