Rai, tra profitto e pluralismo

Per la seconda volta nel giro di pochissimi giorni mi capita di smentire me stesso. Prima avevo annunciato che a seguito della nomina a consigliere di amministrazione della Rai mi sarei dimesso da direttore responsabile de “L’Opinione”. E poi avevo comunicato che non essendoci alcuna incompatibilità tra l’uno e l’altro incarico avevo ritirato le dimissioni ed avevo deciso di rimanere alla guida del giornale a cui ho legato il mio nome per più di vent’anni. Insieme al ritiro delle dimissioni avevo pure precisato che per una semplice ragione di opportunità avrei evitato, da direttore de “L’Opinione”, di occuparmi di vicende Rai. E oggi, di fronte al singolare fenomeno di populismo e qualunquismo giornalistico secondo che punta a dipingere tutti i neo-consiglieri Rai come degli aspiranti satrapi interessati solo ad occupare le stanze del mitico settimo piano di viale Mazzini e di godere di tutti gli infiniti privilegi assicurati loro dallo status di lottizzati, mi trovo costretto a sconfessare nuovamente me stesso consentendomi di compiere una riflessione sul significato reale di questa campagna di stampa.

Molti degli artefici della operazione di dileggio sono animati solo dalla volontà di rincorrere e vellicare, a colpi dei più facili e scontati luoghi comuni dell’anticasta e dell’antipolitica, gli umori dei propri lettori. Ma qualche altro, meno grossolano e più abile nell’utilizzare i forcaiolismi di piazza per raffinate manovre di palazzo, alimenta la campagna non per anticipare una legge che ancora deve passare all’esame della Camera e neppure per creare le condizioni migliori per spianare la strada ad una riforma ispirata al principio del rafforzamento della governance della Rai, ma semplicemente a perpetuare di fatto la vecchia linea Tarantola-Gubitosi voluta dal governo di Mario Monti tesa a fornire una risposta solo ed esclusivamente tecnica al problema di gestione dell’azienda radiotelevisiva pubblica.

Di qui il dileggio verso i consiglieri, tutti, anche quelli che possono vantare qualche competenza nel settore dell’informazione o del prodotto televisivo. Con l’obiettivo di rendere estranei all’azienda quelli che a termini di legge dovrebbero essere i garanti del pluralismo nel servizio pubblico e fare della Rai una sorta di Fca dove la struttura di vertice è unica e tutta tesa al perseguimento del massimo profitto aziendale. Ma a qualcuno è mai passato per la testa che una governance esclusivamente tecnica, come è nomale e sacrosanto in una qualsiasi azienda privata, ha come unico e solo principio ispiratore quello del profitto? Né la legge Gasparri ancora in vigore e neppure la riforma in discussione in Parlamento stabiliscono che il principio del profitto debba avere la prevalenza sulle ragioni di fondo che giustificano il servizio pubblico radiotelevisivo. Esiste la necessità di bilanciare con buon senso e responsabilità le esigenze gestionali tecniche con quelle legate alla funzione propria della principale azienda di informazione, di cultura, di spettacolo e di intrattenimento del Paese. Ed il nuovo vertice della Rai, formato da presidente, direttore generale e consiglieri, deve a mio avviso compiere un passo in avanti rispetto al passato realizzando questo equilibrio non per interessi propri ma a garanzia di tutti i cittadini.

Per questo è ridicola e pretestuosa la polemica sullo status dei consiglieri, sulle stanze e sulle auto di servizio. Per quando mi riguarda il mio status rimane quello di giornalista con quarant’anni di attività alle spalle, mi sposto per Roma in motorino e non ho alcun problema di stanza. La legge, sia quella attuale che quella futura, mi attribuisce delle responsabilità e dei compiti precisi a cui non posso e non voglio sottrarmi. Anche perché l’esperienza mi ha insegnato a riconoscere le manovre di palazzo e a non lasciarmi intimidire dalle provocazioni. E perché posso tranquillamente svolgere le funzioni che mi sono state attribuite in qualsiasi ufficio. Anche usando quello de “L’Opinione”!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:17