Ignazio Marino  e la fine di un’epoca

Il problema non è Ignazio Marino. Che ha fornito una dimostrazione lampante della sua totale inadeguatezza nel messaggio di commiato in cui si è ridicolmente vantato di aver realizzato “cambiamenti epocali” in una città che, avendo dato i natali ai “miles“ gloriosi, li riconosce al volo non appena si presentano. Il problema è la classe dirigente che lo ha prima imposto nelle primarie del Partito democratico e poi lo ha proposto trionfalmente al voto dei romani, usciti prostrati e disgustati da una amministrazione di destra rivelatasi disastrosa.

Ma immaginare che il problema sia solo del Pd, della sua classe dirigente romana e nazionale e delle sue lacerazioni interne accentuale dall’avvento del fenomeno Renzi, sarebbe un errore clamoroso. Perché l’uscita di scena di Marino segna la conferma di un fenomeno molto più ampio e pericoloso rappresentato dal fallimento di un’intera classe politica, senza distinzione di colori, e di quel pezzo della società civile che con essa si è intrecciata, divenendo al tempo stesso corrotta e corruttrice.

Con la defenestrazione di Marino, in sostanza, si chiude un’epoca le cui responsabilità non possono essere scaricate su un singolo soggetto o su una singola parte politica ma che riguardano tutti, compresa quella società civile tanto decantata che, come al tempo dell’Antica Roma, ha accettato di buon grado di svolgere il ruolo dei “clientes” per ottenere vantaggi e benefici ingiusti e non meritati.

Uscire dal pantano non sarà facile. Perché la scorciatoia oggi rappresentata dalla protesta dei Cinque Stelle non segnerebbe una cesura rispetto al passato ma, paradossalmente, la piena e completa continuità. Quella della totale inadeguatezza. Per mancanza di esperienza, preparazione, cultura, autorevolezza, capacità di guida e di innovazione vera.

Servono, allora, per la Capitale, ma anche per l’intero Paese, una nuova classe dirigente ed una più attenta e responsabile società civile. Serve, in breve, una rigenerazione profonda che non può venire dalle forze politiche tradizionali e dai loro “clientes”, ma deve emergere da quella parte della società civile che non è risultata compromessa e collusa. Facce nuove, dunque, provenienti dalle professioni, dall’imprenditoria, dal lavoro, capaci di rigenerare nel segno della totale discontinuità. Vasto programma? Certo. Ma senza una buona dose di utopia si rimane sempre al palo!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:16