Elezioni di primavera: identikit di un sindaco

Su Ignazio Marino cala il sipario. Dopo le sue dimissioni verrà nominato un commissario dal quale si pretenderanno miracoli, visto che la città è chiamata a grandi sfide. Ma i miracoli non sono di questo mondo e anche il più volenteroso tra i servitori dello Stato non potrà fare granché. Sarà già tanto se riuscirà a tenere a galla la barca per evitare che affondi nello sconforto generale. Una sana gestione dell’ordinaria amministrazione sarebbe grasso che cola. Bisognerà attendere l’esito delle prossime elezioni comunali per comprendere come i romani intendano risollevarsi dal degrado in cui sono precipitati. Le profferte non mancano.

Un minuto dopo dell’annuncio delle dimissioni di Marino è partito il toto-nomi. A destra come a sinistra. I big della politica hanno provveduto, ciascuno, a tracciare il profilo del candidato ideale. Lo ha fatto Renzi, lo ha fatto Berlusconi, lo hanno fatto tutti gli altri. Non vale solo per Roma. Sono in gioco poltrone delicatissime: Milano, Napoli, Bologna, Torino. Sarebbe consigliabile una riflessione a largo spettro che non tenesse conto delle contingenze determinate dai duelli quotidiani, ormai tutti mediatici, tra i litigiosi capi e capetti di partito. Sarebbe meglio interrogarsi non su chi ma sul come debba essere il sindaco di una grande città del terzo millennio.

Dopo il tramonto degli “uomini della provvidenza” va facendosi strada, nel teatrino della politica, l’idea di evocare una nuova divinità pagana: il manager. Quando la si smetterà di scambiare il governo di una comunità con la gestione di un’impresa non sarà mai troppo tardi. Se si è stati bravi capi d’azienda non è detto che si sarà dei buoni sindaci, pur avendone tutte le intenzioni. Non esiste alcuna formula matematica che legittimi questa equazione. La complessità dell’organizzazione comunale non è in alcun modo paragonabile a quella di una fabbrica. Nel primo caso bisogna tenere conto degli stati d’animo, del “sentire” della popolazione, oltre che dei numeri di bilancio e dei mezzi idonei ad assicurare il funzionamento della “macchina”; nel secondo si è chiamati a governare processi mediante una pianificazione preordinata. Nel primo caso si persegue il benessere di una comunità; nel secondo si guarda alla profittabilità dell’impresa.

I sindaci che verranno potranno riuscire nel compito soltanto se sapranno interpretare i bisogni profondi dei cittadini amministrati, armonizzandone gli interessi disomogenei, talvolta confliggenti, nell’ambito di un’idea di sviluppo coerente dell’insieme. Se partecipassimo al gioco de “l’uomo giusto al posto giusto”, opteremmo per un profilo di “sindaco delle periferie” perché quei pezzi di territorio, stracolmi d’umanità separata, saranno il vero banco di prova per ogni aspirante al buon governo. Gli agglomerati che cingono i centri storici, nati con la rivoluzione industriale, sono qualcosa di più di luoghi fisici degradati, di quartieri dormitorio, di residenzialità massificata: sono luoghi dell’anima. Esiste una dimensione periferica dell’esistenza individuale e collettiva che si allontana, inesorabilmente, dai ritmi pulsanti del nucleo vitale della grande città. Gli agglomerati dell’extra moenia non godono di forza propria, ma sopravvivono per effetto della capacità di attrazione gravitazionale dei centri intorno ai quali ruotano. Quanto più è avvertita la forza centripeta dei nuclei, tanto migliore è la qualità di vita dei suoi corpi satellitari. La città che smette di attrarre abbandona le periferie al proprio destino. E gli effetti di questa perdita si trasformano nei disagi, nei disservizi, nelle inefficienze e nelle tristi storie di ordinaria miseria di cui la cronaca ci inonda.

Bisogna pur dirselo: il buio che avvolge le periferie italiane è il frutto avvelenato di quella insensata fuga dell’idea di “progresso” dallo spirito coinvolgente e partecipato della “civitas”. Un sindaco questo lo deve sapere.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:14