Il castello di carte “renziano”

L’idea di una norma ad personam lanciata dai vicesegretari del Partito Democratico Serracchiani e Guerini per escludere dalle Primarie del Pd, Antonio Bassolino, non è un segno di arroganza ma solo di estrema debolezza. Nel corso dei due anni in cui ha gestito il massimo potere, il gruppo dirigente renziano non è riuscito a plasmare il partito ad immagine e somiglianza del proprio leader. E ora, alla vigilia di una campagna elettorale amministrativa che riguarderà più di dieci milioni di cittadini e rappresenterà un test politico di primaria importanza per il futuro di Matteo Renzi, si chiude a riccio tentando di blindare un vertice che oggi incomincia ad apparire totalmente lontano e diverso dalla propria base.

Può essere che nel corso dei prossimi mesi la questione Bassolino trovi una qualche soluzione. Ma non basterà sbrogliare in qualche modo la matassa aggrovigliata di Napoli a colmare la spaccatura esistente tra vertice e base del Pd. Se una volta si diceva che la fusione a freddo tra post-comunisti e post-democristiani di sinistra non era riuscita, oggi risulta del tutto evidente che la “renzizzazione” del Pd deve essere considerata del tutto fallita. L’ardita operazione che l’ex sindaco di Firenze aveva deciso di realizzare all’atto della sua elezione a segretario del partito ed alla sua nomina a Presidente del Consiglio prevedeva, da un lato, la “rottamazione” di tutta la vecchia classe dirigente post-comunista e dall’altro la trasformazione di un partito dal Dna di sinistra in una forza politica di centro capace di intercettare gran parte del mondo moderato e diventare una sorta di nuova Democrazia Cristiana destinata a governare il Paese per i decenni a venire.

La rottamazione è riuscita nel vertice romano ma non ha prodotto risultati apprezzabili, tranne casi di trasformismo e di mimetizzazione, nella base e nel resto del Paese. Il caso Bassolino insegna. E lo sforzo di cambiare la natura del Pd, trasformando la sua anima di sinistra nell’anima di un “Partito della Nazione” senza identità e senza storia, non ha fatto conquistare le masse moderate e ha fatto perdere quelle legate alla vecchia tradizione progressista.

Ciò che tiene al momento in piedi Renzi non è solo il sostegno delle Cancellerie e di alcuni gruppi economici e finanziari internazionali preoccupati di mantenere ad ogni costo la stabilità di un Paese indispensabile per la tenuta del confine meridionale dell’Europa. È il coacervo occasionale di interessi interni che, pur di avere anch’essi un minimo di stabilità indispensabile per fronteggiare la crisi, si adattano e si accodano al renzismo considerato il male minore in attesa di puntare su una alternativa più solida ed affidabile. Il castello di Renzi, in sostanza, è di carta. E le prossime elezioni amministrative potrebbero farlo cadere clamorosamente.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:16