Stato Islamico:   la rabbia e l’orgoglio

Matteo Renzi, il piccolo uomo che gioca con i destini di una nazione, è certamente il più furbo dei don Abbondio manzoniani. Avendo fregato tutti al suo paese, ha pensato di poter fare lo stesso all’estero replicando la messinscena del finto don Rodrigo. Ma il bluff non gli è riuscito: girare le spalle agli alleati sulla vicenda siriana non è stata una genialata, ma un atto di codardia. Mancare agli appuntamenti che la storia concede ai popoli, sebbene ad alcuni appaia un’astuzia, è sintomo di un comportamento politicamente miope e moralmente deplorevole.

La Federazione Russa prima e la Francia dopo hanno argomentato la questione della guerra allo Stato Islamico definendola atto di difesa, non di questo o di quel singolo Paese ma di un’intera civiltà. La nostra. Sul momento, non tutti i player occidentali hanno compreso la portata della scelta radicale di François Hollande. Si saranno domandati: in fondo, i morti di Parigi varranno una guerra d’annientamento del nemico a casa sua? Evidentemente sì, se sono poi giunti alla conclusione che non potevano restarne fuori: Gran Bretagna e Germania oggi sono della partita. Anche Barack Obama non tarderà a schierarsi per non lasciare mano libera alla Russia di Vladimir Putin. Quindi, la coalizione dei volenterosi si va componendo a Occidente.

Tutte le Cancellerie che contano hanno risposto, tranne una: quella italiana. Dicono dalla maggioranza: l’Italia già fa tanto per le missioni internazionali che non si avverte il bisogno di aggiungere la Siria alla mappa degli impegni all’estero. Lo dicono sapendo di negare intenzionalmente il problema. Essere oggi in Siria contro lo Stato Islamico è qualcosa che va oltre l’ordinario: è il segno tangibile di un ruolo di contesto. Vuol dire essere tra i decisori. Certo! Non sarà qualche cacciabombardiere italiano a decidere le sorti della guerra all’Is. Come non lo furono i nostri Tornado nella prima guerra del Golfo. Ma c’eravamo. Anche adesso, un aereo in volo sui cieli siriani con le insegne del tricolore avrebbe un senso: garantire al nostro Paese un posto sulla plancia di comando della coalizione occidentale. Non è storia di oggi, da sempre funziona così.

Gli “italiani in pectore”, caduti nell’epica battaglia della Cernaia durante la missione del contingente sardo-piemontese in Crimea, nel 1855, permisero a Camillo Benso di Cavour di sedere, da vincitore, al tavolo di Pace di Parigi e di porre per la prima volta in una sede internazionale la questione dell’Unità d’Italia. Benché la storia non si faccia con i “se”, immaginate cosa sarebbe stato dell’idea de “l’una terra patria” se al posto di Cavour, primo ministro e di Urbano Rattazzi, ministro dell’Interno, vi fossero stati due come Renzi e Alfano con i loro “se-però-ma anche-tagghiamo i sospetti”.

Vi sono circostanze nelle quali una nazione responsabile non si perde in calcoli opportunistici, ma agisce in funzione della misura del suo prestigio internazionale. Può darsi che la parola guerra spaventi i fautori della pace deprivata di condizioni qualificative. Tuttavia, dovrebbe impensierire molto di più il destino di quel Paese che in nome del pregiudizio pacifista rifiutasse di combattere il nemico. Renzi, purtroppo, non è un cuor di leone. Lo sappiamo. Ma anche un codardo può scoprire in sé un insospettato coraggio, in quell’irripetibile attimo nel quale la coscienza si specchia nel flebile riflesso dell’onore perduto. Abbiamo una portaerei che reca il nome del padre dell’Unità d’Italia: Cavour. La nostra nave ammiraglia è in grado di contenere una linea di volo di 20-22 aeromobili. Perché non schierarla a fianco della signora del mare, la “Charles De Gaulle”? Sarebbe un gran bel modo per l’Italia di rispondere all’appello di Hollande: presente!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:14