Je suis San Giuseppe

Confesso che ho provato un senso di frustrazione nel leggere l’articolo di Vittorio Feltri “Io i presepi li detesto. Ora guai a chi me li tocca”, apparso su “Il Giornale” on-line di domenica scorsa, perché quel pezzo l’avrei voluto scrivere io. Sul Natale la penso esattamente come lui. Anche a me le smancerie obbligate a scadenza fissa non sono mai piaciute. Sarà perché ho smesso di essere cattolico molto tempo fa, sarà che ho iniziato troppo presto ad ammirare l’antichità pagana dove solstizi ed equinozi non sono solo ordinari appuntamenti astronomici. Sarà per quella letterina a Babbo Natale farcita di fasulli buoni propositi alla quale ero puntualmente costretto dallo Stato per il tramite dei suoi “agenti d’influenza” più subdoli: le maestre. Sarà! Ma a me il Natale è sempre stato sulle scatole. Solo una volta mi ci ritrovai quando, ascoltando Padre David Maria Turoldo, appresi che la Natività non dovrebbe essere festeggiata ma meditata come il ciclico rinnovarsi di una discesa del divino nel dolore del mondo.

Benché ritenessi la festa troppo indulgente con il profano a dispetto del sacro, non ho mai pensato che quella rappresentazione di una fede semplice, artigianale nelle sue fattezze e purtuttavia colma di significati profondi, mi offendesse al punto da desiderarne la rimozione. Non sarò stato un asso al catechismo, ma qualcosina sul rispetto del prossimo l’ho imparata. E il fatto che personalmente intrattenessi pessimi rapporti con i dogmi di Santa Madre Chiesa nulla toglieva al mio sentirmi parte di una comunità che in quei simboli riconosce se stessa, la propria storia, la propria identità. Quei simboli natalizi mi identificano, sono parte del mio essere nel reale, integrano la mia cultura. Cultura con la C maiuscola che, nella terra dei nostri padri è e deve rimanere “cultura dominante”. Mi rendo conto che l’espressione sia divenuta desueta perché scomoda e politicamente scorretta. Tuttavia, faremmo bene a rispolverarla, magari sostituendola nello slang alla parola “contaminazione” che, di questi tempi, va per la maggiore in certi ambienti radical-chic.

Personalmente l’associo all’idea della malattia, del morbo che, agendo silente dall’interno, mina l’integrità del corpo e della mente. Per questo non mi piace “farmi contaminare” e guardo con sospetto chi fa abuso del concetto. Ora, se qualche fanatico multiculturalista, pagato dai contribuenti per far danni nel mondo della scuola, ha deciso di cancellare, motu proprio, i simboli del Natale, sta cancellando anche me e ciò che sono. Il presepe è più di un pezzo di sughero adornato di muschio, legnetti e statuine colorate, è il segno archetipico della famiglia sulla quale è nata e si consolida la nostra identità comunitaria. Ma, dirà la banda degli onesti del buonismo, che così facendo si turbano le coscienze di quei nuovi arrivati i quali non credono al dio crocifisso. E con questo? Anche a me tante cose non vanno giù, come il baccalà il cui solo odore mi dà la nausea. Ma se sono ospite di qualcuno che adora cucinarlo alla livornese, alla vicentina o friggerlo alla napoletana al più evito di mangiarlo, certo non pretendo che il padrone di casa e la sua famiglia cambino tradizioni alimentari per compiacermi. Non sarebbe giusto. Se vale per me e per il baccalà perché non dovrebbe valere per quei quattro farabutti che hanno frequentato con malefico profitto troppi seminari di pedagogia progressista? Hanno problemi con il Natale? Che se ne vadano da qualche altra parte a rinnegarlo, visto che hanno da spendere il “bonus cultura” elargito da Matteo Renzi, ma lascino in pace il bue e l’asinello. E i nostri figli.

Giacché fa tendenza protestare proclamandosi qualcuno o qualcos’altro, mi adeguo e opto per San Giuseppe. Mi procurerò una maglietta con la sua effige coronata da una scritta: “Je suis San Giuseppe”. Sarà il mio modo per dire che il Natale non si tocca. Compresa la puzza del baccalà fritto la notte della Vigilia.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 18:22