Matteo Renzi  e il populismo light

Lessico politico e sintassi della dialettica, i due poli della dinamica politica, sono da anni, molti anni, usciti dall’enciclopedia tradizionale finendo in un vocabolario che è di immagini e non di pagine, di parole non scritte ma scagliate come pietre.

L’enciclopedia dei Diderot e Le Rond d’Alembert moderni, ovverosia dei politici degni di questo nome, cioè della Prima Repubblica, si è rinsecchita e, al tempo stesso, ringalluzzita, insediandosi nel dizionario della televisione, a cominciare dalla fine della Prima Repubblica, appunto, con l’avvento dell’antipolitica strillata riassumibile in un binomio: populismo e giustizialismo. Il primo dei due è il sigillo la cui impronta non se n’è mai più andata in una cavalcata del ventennio del circo mediatico giudiziario, dall’assalto a Bettino Craxi e Giulio Andreotti a Silvio Berlusconi, in un passaggio di testimoni-talk show segnati certamente dall’archetipale funariano ma indelebilmente incrociati nella furia travolgente di un Santoro, ma non solo. Perciò, quando uno come Pietrangelo Buttafuoco - che nelle analisi dei media politici è tanto impietoso quanto strepitoso nella sua padronanza sublime della provocazione colta e storica - sostiene che il chiavistello fornito da Gramsci per assaltare le casematte, come la televisione, in primis la Rai, è stato fatto saltare dagli artificieri della destra populista assicurandosene la gestione (Giletti, Paragone, Del Debbio...), ci consegna una fotografia veristica dello stato delle cose e, contestualmente, ne adombra i limiti, insiti in quel dichiarato “parlare alla pancia” inversamente proporzionale alla profondità analitica, lontana dal cuore delle questioni perché incistato nel ventre delle persone, ma pur sempre garante di un punto in più all’Auditel politico.

Vengono da lontano, dunque, i semi di una stagione populista nella quale, a sentire i politologi più ferrati, la gara instaurata per quel punto in più viene sempre aggiudicata a chi basta un decibel in più nell’urlo. L’esempio classico di vent’anni fa è il Cavaliere che abbandona la trincea del lavoro per scendere nell’arena pubblica ma in nome e per conto dell’antipolitica, in alleanza con l’Umberto Bossi della secessione più o meno “armata”. Quello più recente è il “vaffa” di Beppe Grillo, inconfondibile grido di battaglia del populismo ipervolgare, che ha stracciato Bersani e Berlusconi, ponendo da allora un’ipoteca sull’intera politica, anche di domani, almeno a vedere certi sondaggi, sia pure gravati da qualche sospetto di ambiguità non disinteressata. Il populismo scorrazzante per i campi della politica, tanto più strepitante nel contesto tragico del cosiddetto scontro di civiltà, la guerra in corso, non si è fermato nemmeno con l’avvento di Matteo Renzi; al contrario, si è per dir così aggiornato, modificato, in un certo senso sublimato, posto che il populismo accetti questa manipolazione in meglio. In meglio? Non sappiamo. Sappiamo di certo che anche Renzi fa parte della carovana di cavalieri galoppanti nelle praterie politiche. È un populista sui generis, soprattutto nella collocazione di governo che l’ha costretto a tradurre il frenetico populismo delle sue predilette Primarie in una veste come dire, più leggera, più soft: il populismo light. Non stiamo a dire se sia un bene o un male, anche perché l’ombra che ne accompagna l’azione, di governo soprattutto, sfuma il paesaggio, lo avvolge roseamente, introducendo nella narrazione, spesso adrenalinica grazie ai jet e all’età, una sistematica iniezione di ottimismo della volontà, in assenza del pessimismo della ragione. Ha le sue buone ragioni, chissà. Ma il problema vero è un altro, e riguarda il “suo” Partito Democratico alla vigilia delle elezioni ammnistrative del 2016.

Quanto ha scritto ieri il nostro direttore sui casi emblematici di Parma e della Liguria disvela lucidamente un paesaggio assai meno roseo proprio per il Pd impropriamente renziano. Per la semplice ragione che Renzi non ci può fare affidamento, non solo non lo controlla ma stenta persino a imporre un suo candidato oggettivamente più forte di tutti, come Sala a Milano dove il sindaco Pisapia non nasconde la volontà di una sua regia nella successione contrapponendo a Sala la “sua” Balzani. Dove può condurre il populismo prediletto da Renzi nella sua versione leggera e soffice, specialmente dentro un partito frammentato, allo sbando, e del quale avrebbe tanto bisogno in vista delle elezioni, ma se ne occupa con tre massimo quattro dei suoi fedelissimi? Al partito light che più light non si può. Che non c’è. Salvo scissioni.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:09