Milano, meglio donna Letizia

Non Primarie che fai, sorprese che trovi. Il centrodestra, forse saggiamente, rifiuta da sempre la stanca, e a volte sorprendente, liturgia delle primarie. Forse, diciamo forse, perché la destrutturazione del partito del Cavaliere favorirebbe, nell’organizzazione non semplice delle elezioni interne, la più capace (e adusa ai gazebo) Lega Nord a trazione salviniana. Fatto sta che, e lo diciamo senza forse, nel giro di qualche giorno sono tornate a fiorire nel centrodestra le indicazioni più curiose aggiungendole a quelle di prima.

In genere, è il leader indiscusso della Lega che si concede a colloqui e interviste più o meno volanti, distribuendo sufficienze e insufficienze, lanciando sonde e palloncini. Intanto, per vedere l’effetto che fa. L’ultimo nome buttato là è quello di Stefano Parisi, già city manager della giunta Albertini, di recente provenienza confindustriale. Ottimo dirigente, si capisce. Ma quello che si capisce meno - o forse troppo, chissà - è la logica politica della proposta - abbastanza condivisa salvo i silenzi del Cavaliere fino alla prossima settimana - giacché l’eventuale scontro per la poltrona di Palazzo Marino si risolverebbe nella contesa fra due altissimi dirigenti, due lodevoli tecnocrati, ma dall’identico profilo metapolitico. Insomma, due candidati intercambiabili: Sala direttore generale del Comune con la Moratti, Parisi idem con Albertini. Il cerchio sembra così chiudersi in nome della supremazia dei tecnici sui politici con qualche anima bella che citerà la prevalenza, della società civile in uno piuttosto che nell’altro. Ma il risultato è sempre lo stesso: la politica per ora è archiviata. Un male? Un bene?

C’è chi denuncia un commissariamento della politica e c’è chi, invece, attribuisce ai due rispettabilissimi e ancora ipotetici candidati un ruolo di tecnici sui generis, prima di supporto alla politica e ora direttamente nell’Arena. E c’è chi, infine, ragiona sui cambi epocali cui stiamo assistendo sullo sfondo di una nuovissima ondata migratoria a cui non siamo abituati da secoli o millenni (i Goti, i Mongoli...) intrecciata con la minaccia terroristica del Califfato mentre non finisce la crisi economico-finanziaria. Se sul piano globale la condizione è questa, su quello locale non è difficile notare la crisi di un centrodestra in cui il giovane Matteo Salvini vuole giocare una partita interna “con” ma anche “contro” Silvio Berlusconi in funzione di una lotta nazionale, con obiettivo Palazzo Chigi. In questo senso, non poche delle mosse salviniane sembrano come svelare un distacco dalle questioni locali, una specie di sovrano disinteresse non solo per inseguire il traguardo più ambizioso, ma come dando per perduta la città fino a cinque anni fa culla feconda del berlusconismo. Culla oggi sterile, sarebbe il pensiero nascosto di Salvini, e da ciò la sensazione che qualsiasi candidato a sindaco (a parte quello di Lupi, of course) va bene, tanto... Ma Milano è pur sempre Milano, la “città che sale”, la città simbolo dove, tra l’altro, Matteo Renzi gioca la sua credibilità, a dir poco, mostrando però di avere anticipato la destra indicando alla carica di sindaco un manager dall’identico profilo di quello prospettato dall’ex Polo, ma che è seguito a ruota, arrivando secondo, quasi copiando. A parte il fatto che qualche malizioso dentro il Pdl accusa non si sa bene chi di non essere stato proprio il Pdl a candidare subito Giuseppe Sala. Allora la riflessione che ci poniamo dovrebbe uscire dal cerchio magico di questo inedito marketing elettorale meneghino. Non per sminuire i due nomi di cui sopra, ci mancherebbe altro, ma per tentare un nostro ragionamento che non può non iniziare là dove è finita l’esperienza amministrativa della Moratti. È terminata in una sconfitta inflitta da un outsider come Pisapia il quale, cinque anni dopo, non si ripresenta con una scelta personale di tutto rispetto ma che costringe a fare un bilancio del quinquennio. Da qualsiasi lato lo si guardi, il bilancio parla soprattutto di una condotta a buon fine di progetti voluti dalla Moratti e dalla sua giunta, e non stiamo qui ad elencarli. Il che significa la buona, ottima stoffa di quei programmi mostrando, nel contempo, la validità di un’antica regola di rito ambrosiano, quella di costituire fra un primo cittadino e l’altro una sostanziale continuità, al di là delle sigle partitiche.

Ora, se non c’è dubbio che il marchio di ottimi progetti - basti pensare solamente all’Expo - condotti in porto (non tutti, purtroppo, pensando alla Metropolitana e alle aree delle ex stazioni, ma ne riparleremo) è l’originale, quello impresso da Donna Letizia, allora si può auspicare che l’autore (pardon, l’autrice) del sigillo autentico sia la più indicata a ritornare in quel Palazzo Marino per imprimerne altri di sigilli. E doc, originali. O no?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:58