Garantismo: traffico di talk e delle influenze

Che domenica bestiale. Che domenica di talk-show. Prima, nel pomeriggio, con Matteo Renzi “face to face” con Massimo Giletti (Rai 1), poi gli svegli Labate e Parenzo, alla sera, con altri “esperti”. Siccome i talk sono in crisi - vorrei vedere le rughe di chiunque, venti anni e più dopo - diventa un must il talk ad hoc. E così il “Fuori Onda “(La 7) di David Parenzo e Tommaso Labate ha messo in onda una serie di botta e risposta, vivacizzati (come minimo) dallo scafato duo sia in funzione (poca) del tema principale che in direzione (molta) del Premier. E poiché alla trasmissione parlavano personaggi di primo piano, esperti dei mass media, come Freccero e Fini, ma anche della politica, come l’onorevole Concia e il filosofo Bonaga, non c’era per dir così trippa per gatti. Nel senso che il tema della crisi talkofonica veniva sottomesso al tema super del Presidente del Consiglio, non fosse altro perché costui di media, cioè di tivù, se ne intende.

Il punto nevralgico, se vogliamo, era un altro e riguardava un’altra messa in onda, quella di Vespa con il figlio di Totò (non quello che fa sempre ridere), il quale non poteva che dipingere il genitore come buono, affettuoso, devoto alla famiglia, ecc.. Sulla idoneità per la Rai della puntata vespiana s’è alzato il giudizio critico di qualche Autorità ed è in un certo senso naturale che ciò avvenga. Altrimenti, che ci sta a fare un’Autorità? Freccero, invece, che dei media è uno dei migliori esperti e ne è stato un effettivo innovatore, ha difeso Bruno Vespa “definendosi figlio di Cesare Beccaria, cioè garantista (e sarebbe bello che a questa sublime paternità si rivolgesse sempre, magari inventando un talk “beccariano”, hai visto mai...), e ha riportato la questione nei suoi più veri termini parlando cioè della ragione stessa della tivù, della sua più vera entità, del suo viaggio inarrestabile nel mondo umano e superumano: la televisione va da sola, diceva Freccero. Una volta accesa, va dove vuole. È come l’acqua, una volta aperto il rubinetto o la diga. E questo non tanto o soltanto perché il caso di “Porta a Porta” è l’ennesimo della storia televisiva, ma per il semplice motivo che il medium procede per conto suo in quanto la legge regolatrice è implicita in re ipsa.

Ma se le cose stanno così è persino ovvio che i talk-show entrino nell’ombra della criticità non soltanto perché inflazionati, come ha rilevato l’attenta Concia - “in Germania ci sono sette talk-show alla settimana, in questa tivù ce ne sono sette al giorno” - ma soprattutto perché la crisi della politica coincide con quella della sua espressione televisiva che primeggiò venti e più anni fa nel format impostato sul più classico e feroce dei giustizialismi (do you remember Tangentopoli?) ma che oggi mostra, per l’appunto, le rughe. Il format, non il giustizialismo, intendiamoci. Un processo inevitabile di invecchiamento colpisce qualsiasi modalità espressiva in televisione, figuriamoci i talk ingolfati di pluriprotagonisti urlanti le proprie ragioni fino al limite della loro incomprensibilità, che coincide col tornare sempre al punto di partenza.

Persino il telegiornale, format classico mondiale, subisce la legge dell’invecchiamento. Ma poi basta, per esempio, un ottimo Cecchi Paone a far dimenticare l’antico e pur amato Emilio Fede, per dare modernità, respiro e qualità inconfondibili al suo nuovo Tg4. Col che si vuole affermare un’altra questione collegata ai talk-show. Questi ultimi sono di certo in crisi, ma lo sono tanto in quanto la loro modalità narrativa ha cercato di subordinare a sé la politica imponendo una storytelling ripetitiva di una Polis ricettacolo di ogni vizio e di ogni reato, per di più sottomessa non alle regole proprie ma a quelle altrui, cioè dello spettacolo. Confondendo l’audience conquistata dalla tivù con la propria, finché entrambe sono finite nel cono d’ombra della crisi. Col che non si vuole affatto apporre il cartello “Traffico vietato ai talk”. Ci mancherebbe altro. Anzi, ce ne vorrebbero molti rispetto, per esempio, a quel nuovissimo “traffico di influenze” che si va imponendo nelle classifiche e nei dibattiti dei e sui reati up to date e, per dirla con un implacabilmente rigoroso Massimo Bordin (sul “Foglio”) danno vita a raffinate discussioni giuridiche.

Peccato, diciamo noi, che simili dibattiti siano tenuti alla larga da qualsiasi talk dove basterebbe la breve storia di quel reato narrataci da Bordin, a cominciare dalla sua strutturazione nella Francia del 1889 per colpire “il commercio di legion d’onore”, per animare il corpicino esangue del format. Del resto, vedendo Renzi nel corpo a corpo con Giletti nella domenica bestiale e fredda del 1 maggio, qualcosa di come si possa sfruttare anche questo datato format lo si è notato. Anche al di là della consueta marcia trionfale renziana che, a volte, mostra un dettaglio di riflessione. Come quando ha messo sullo stesso piano l’ipotesi di riforma della prescrizione e quella dei tempi (epocali) della giustizia. Un piccolo, piccolissimo passo avanti, si direbbe. Ma la strada è lunga assai, e i molti talk, nati nel solco del giustizialismo antipolitico, non ci sentono da queste orecchie. Peggio per loro? No, per noi.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:59