Lodi: e se Uggetti   fosse innocente?

Manette a gogo a Lodi. Ampi e reiterati servizi sui media nel solco del classico Circo Barnum giustizialista che della colpevolezza a priori ha fatto lo scivolo del salto in lungo dell’audience. Il metallico tintinnio procede con l’invettiva contro i corrotti in nome delle lucidate cattedre di superiorità etica nelle aule dedicate alla questione morale. Sparito il senso della misura s’è dissolta contestualmente la razionalità e insieme i concetti primordiali, fra cui quello della non colpevolezza fino alla sentenza. Sì, l’innocenza, a cominciare da quella dell’ex sindaco di Lodi; ma non solo, s’è dissolta concettualmente. La sua stessa parola viene travolta dalle urla dei forcaioli mediatici nel Bel paese, già culla del diritto. E del suo rovescio.

Sono questi i momenti della nostalgia e della malinconia. Momenti nei quali s’invoca l’“esprit élan” di Marco Pannella (a proposito, auguri Marco!). Quella spinta vitale che lessicalmente svela lo scontro eterno fra bene e male, fra vita e morte. Lo spirito vitale è una spinta verso la vita, proprio come l’intendevano le leggendarie battaglie di Pannella e di tanti altri a cominciare da Emma Bonino a Mauro Mellini, per dire. Se ci mancano - e quanto ci mancano! - questi “animal spirit” è anche e soprattutto perché i paletti del confine fra il buio e la luce sono stati ampiamente superati senza che dalla politica ne provenissero difese degne del nome. Perciò la non mai dimenticata opera, la prima del genere, del nostro Arturo Diaconale apparsa agli albori (“Tecnica postmoderna del colpo di Stato, magistrati e giornalisti” - 1995) di questo irreparabile sconfinamento e improntata sugli effetti devastanti del circo mediatico giudiziario, rimane la storica testimonianza in “corpore vili”. Alla quale, di certo, ne seguirono altre ma sempre obnubilate nel cono d’ombra di un politicismo d’accatto nella sua ferocia strumentale, di una dimenticanza colpevolmente distratta al punto da subire come legge del contrappasso i suoi silenzi mescolati a mezze misure e a goffi tentativi di difese ad personam.

“Heri dicebamus”, viene voglia di esclamare, se non fosse che lo spazio temporale di quasi un quarto di secolo (Mani Pulite è del 1992) non stesse oggi a indicare la medesima distrazione d’allora e, soprattutto, le identiche colpevolezze. Soprattutto dei postcomunisti che investirono in quell’operazione l’unico capitale sopravvissuto al crollo del comunismo: la salvezza miracolosa dall’inchiesta del secolo. Miracolati dalla selettività di una giustizia risvegliatasi di colpo dal “big sleep” che la contraddistingueva, i sopravvissuti continuarono ad oltranza a tracciare il solco della forca in azione, aggiustandola con appropriate tesi politiche la cui unica identità unificante era l’odio prima contro Bettino Craxi poi contro quel Cavaliere, improvvisamente vincitore, cui avevano promesso un futuro da straccione col piattino in mano. Partito Democratico della Sinistra e poi Partito Democratico e poi Ulivo, che cosa spicca in questi alambicchi politici se non l’antiberlusconismo?

Naturalmente, fatte le debite e poche eccezioni, il camminare sul cadavere dei vinti in virtù del miracolo di certe toghe, alimentò la sorgente velenosa del giustizialismo. Ma questa è storia, come si dice, sarebbe troppo facile e persino noioso citare i casi clamorosi del ribaltamento delle accuse divenute leitmotiv mediatico-politici nelle proclamate e tardive innocenze, subito finite nell’archivio dell’oblio (vedi il caso di Filippo Penati, ex presidente di fede bersaniana della Provincia di Milano). Allo stesso tempo diventa, a volte, specioso e fuorviante rovesciare sullo strapotere della magistratura quel che si chiama “fare il bello e cattivo tempo nella politica”, secondo le lancette del loro infallibile orologio.

Certo, le toghe hanno le loro responsabilità, si capisce. Quello che però continuiamo a non capire - e sono passati più di vent’anni nei quali la corruzione si è moltiplicata - è l’impressionante ritardo con cui la politica, non solo non è riuscita a fare il proprio dovere cioè a riformarsi senza bisogno delle toghe, ma a ristabilire il principio della divisione dei poteri secondo “la più bella Costituzione del mondo” e dunque a realizzare una vera e propria riforma della giustizia. È così che diventano patetiche sia le dichiarazioni prammatiche di “riporre la massima fiducia nella giustizia” sia le critiche accese nei confronti dello strapotere della stessa, rovesciando letteralmente posizione. Mai che ci si chieda chi ha lasciato tutto questo strapotere alle toghe, chi ha approvato leggi e leggine che le concedono uno spazio interpretativo immane, chi le ha delegato la soluzione di problemi che spettano solo alla politica perché espressione della volontà popolare.

In compenso avanza la proposta di allungare i tempi di prescrizione perché la popolatissima associazione amici della forca la invoca come soluzione alla malapolitica. Li allungheranno quei tempi, figuriamoci. E ha ragione da vendere il glorioso e inascoltato Istituto Bruno Leoni: “La certezza del diritto finirà in prescrizione”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:58