Napolitano: l’essenza   di un comunista

Leggere l’intervista concessa da Giorgio Napolitano al Corriere della Sera spiega molte cose. Spiega ad esempio chi sia la mente raffinata che detta la linea e orienta le mosse di Matteo Renzi, che è leader mediatico ma non vero capo carismatico. Spiega quanto sia profonda e radicale la sua “visione del mondo”. E chiarisce del perché, nella traiettoria ideale del vecchio comunista approdato al Quirinale, l’iperbole del berlusconismo abbia rappresentato non la condizione di una fazione avversaria da contrastare sul piano democratico, ma il simulacro della categoria ontologica del nemico da combattere con ogni mezzo fin dalla fase prepolitica della sua emersione.

A leggere l’intervista un punto colpisce particolarmente. Alla domanda di Aldo Cazzullo sul rischio che l’Europa si sfasci, Napolitano risponde abbracciando in toto la linea “fusionista” di Barack Obama. Non è un mistero che il presidente degli Usa si stia prodigando per convincere gli Stati del Vecchio Continente ad avanzare sulla strada dell’unificazione europea. Non si tratta di una nobile causa ideale, ma di un ben più prosaico opportunismo dettato da interessi contingenti. Nella prospettiva dell’inquilino della Casa Bianca l’Europa è la grande piazza commerciale su cui portare le produzioni statunitensi, sottraendo spazi di mercato ai competitori globali. Napolitano non coglie questo aspetto della posizione di Obama, ma preferisce piegarne il pensiero a sostegno delle sue tesi. Egli ne fa sua l’analisi sul riaffiorare nelle popolazioni occidentali di pulsioni nazionaliste. Napolitano lo cita testualmente: “È nella nostra natura umana l’istinto, quando il futuro appaia incerto, di ritrarsi nel senso di sicurezza e di conforto della propria tribù, della propria setta, della propria nazionalità”. La conclusione del ragionamento è: gli istinti nazionalistici sono una versione aggiornata di atavici istinti tribali.

Per l’ex presidente della Repubblica lo stimolo a coltivare lo spirito comunitario sarebbe un incentivo alla regressione consapevole dell’individuo verso stadi primordiali dell’umanità. Con questo salto all’indietro nella costante evolutiva della civiltà riaffiora la figura del Napolitano marxista, materialista storico che crede nell’annullamento delle diversità come risultante del progresso umano. L’assimilazione concettuale del nazionalismo ad una dimensione primitiva dell’umanità è tipica di chi nega orizzonte di senso al bisogno identitario delle comunità territoriali. E lo fa allo scopo di innalzare a valore ultimo e assoluto il feticcio dell’indistinto, tipico di tutte le ideologie egualitariste, a cominciare da quella comunista.

L’“outing” filosofico di Napolitano in qualche modo ci tranquillizza perché, in un tempo di estremo disorientamento escatologico sui destini dell’uomo, di narrazioni fuorvianti propalate da demagoghi improbabili, diviene più agevole comprendere da quale parte del campo egli si collochi. Fortuna che esiste ancora una sponda opposta, che ci consegna visioni del mondo inconciliabili con le sue. Che poi è la porzione di mondo che postula a origine di sé la funzione fondante degli archetipi che hanno messo in movimento l’umanità nel suo cammino verso la civiltà. Esiste nel genoma dell’uomo di destra la coscienza del “illo tempore”, che consente di elevare la vita alla dimensione del sacro. Gli umani che rivendicano il diritto a riconoscersi in un’identità culturale differenziata non piacciono al cosmopolita Napolitano che, probabilmente, non ha smesso di ambire a ridurre in poltiglia la Tradizione come vorrebbe la legge dell’ὄντος prima comunista, oggi mondialista. Ecco dunque chi abbiamo avuto a capo della nostra comunità statuale per nove lunghi anni. I nostri politici dovrebbero mostrare più criterio nella scelta dei garanti dell’unità nazionale. Ma quanti altri Napolitano ci attendono dietro l’angolo?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:04