Migranti all’arrembaggio

Ci siamo. Stanno arrivando. Più di 40mila immigrati dall’inizio dell’anno. Nella sola giornata di giovedì ne sono stati recuperati in mare 4mila. Ormai il Canale di Sicilia è tutto un Pronto soccorso. Sono disperati in cerca di una vita migliore. Vengono dal cuore dell’Africa e sono in viaggio verso l’ignoto. Hanno un sogno: essere salvati dagli italiani. Sarebbe una bella storia da raccontare se non fosse che la realtà è altra cosa: non è il libro Cuore. Per i tanti che ce l’hanno fatta ce ne sono centinaia che hanno trovato la morte nelle acque del nostro mare. Vivi e morti, recuperati e dispersi, hanno una sola certezza che li accomuna: quel viaggio lo hanno pagato a caro prezzo. In questo spettacolo di orrore non vi è nulla di commendevole di cui compiacersi. Non basta dirsi bravi e misericordiosi a salvarli dalle acque, quando va bene. Se si vuole che tanti sciagurati non perdano la vita in modo così crudele bisogna impedire che partano.

Gira e rigira il problema è sempre uno solo e si chiama Libia. Quel deserto di sabbia disteso di fronte alle nostre coste, fertilizzato dal concime dell’anarchia, è divenuto il paradiso dei trafficanti di carne umana. Fanno milioni a palate gettando in mare un’umanità disperata nella certezza che l’Italia l’accoglierà. Vi è un legame intimo e perverso tra il nostro paese e questi criminali, del tutto simile a quello che lega un tossicomane al suo pusher. La dipendenza dalla droga del multiculturalismo ha creato un mercato: l’Italia dopata con dosi massicce di buonismo ideologico li chiede in numero sempre maggiore per continuare a drogare i suoi conti con l’Europa e loro, gli spacciatori di essere umani, glieli danno. È business criminale, ma pur sempre business. Ci guadagnano tutti: i trafficanti, le cooperative che gestiscono l’accoglienza e il governo italiano che va col cappello in mano a Bruxelles a elemosinare manciate di flessibilità per i propri conti farlocchi.

C’è spietato cinismo dietro l’insopportabile ghigno del nostro premier che va a sbandierare al G7 il suo orgoglio di salvatore di immigrati, omettendo però di dire cosa ne faccia dopo che la nostra Marina li ha soccorsi. Ora, le stime per la prossima estate parlano chiaro: si prevedono almeno 200mila arrivi sulle nostre coste. Con le frontiere del nord praticamente sigillate dovremo tenerceli tutti. E dove li mettiamo? In nuovi lager da attrezzare alla bisogna o li lasciamo sciamare in lungo e in largo per lo stivale? È giunto il momento di mettere piede in Libia per bloccare il flusso. Per quanto sia duro affermarlo, gli immigrati non devono prendere il mare. Se tratti in salvo durante la traversata devono essere riportati sulla costa africana. Blocco navale al largo delle coste libiche: questa è la parolina magica che gli ipocriti e i cialtroni dei nostri sacri palazzi non osano pronunciare. I tanto osannati hot-spot, per essere davvero utili, devono essere installati nei luoghi di partenza dei barconi. Non c’è alternativa. Fin quando il messaggio che passa ai disperati del mondo è che in Italia si può, i flussi non si fermeranno e altri disastri dovranno essere annotati in questa macabra contabilità dell’orrore.

Ma il nostro governo non sente ragioni e procede nel vicolo cieco di un’accoglienza no-limits di cui osa anche menare vanto. Allora altro che buoni e generosi, sugli italiani ricadrà l’infamia di essere stati complici di un sporco traffico di umanità dolente. Si dirà nelle capitali europee che Roma, in cambio di trenta denari di flessibilità sui conti pubblici, si è prestata a tenere bordone alla peggiore feccia negriera. Se Matteo Renzi e i suoi se ne fregano di passare per lenoni, alla maggioranza dei connazionali importa tantissimo difendere l’integrità delle proprie contrade e il buon nome dell’Italia. Perciò stavolta non la passeranno liscia. Politicamente parlando, s’intende.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 19:44