Rai: Grande Fratello o pluralismo

Serve o non serve un Consiglio di amministrazione? Soprattutto di una imponente azienda come la Rai? Che fini debba perseguire essa stessa e quali e quanti gli impulsi derivanti dal CdA qualora sia in condizioni reali di esprimerli nel solco dell’obbligatorio pluralismo? Può esistere un’azienda senza un “collegio” come quello scelto dalla legge?

Alla luce di queste premesse, sembra quasi superfluo ribadire che le ragioni del nostro direttore, attualmente nel Cda Rai, non solo sono corrette ma indispensabili per ritentare una ricomposizione dell’epistemologia del servizio pubblico. Non spaventiamoci delle parole che, al contrario, come nel caso dell’epistemologia, hanno a che fare con la ricerca della verità, dell’essenza, della logica di uno strumento insostituibile come la televisione. E figuriamoci poi se, parlando di servizio pubblico, tale ricerca e la sua concretizzazione nella filosofia/pratica dei programmi non debba essere valutata partendo proprio dalle considerazioni predette. La tivù si barcamena da sempre fra la minaccia del Grande Fratello orwelliano e la risultanza della sua più gradita consistenza: il godimento passivo di un piacere da voyeurismo da distrazioni. Ma se la stessa raison d’être della Rai è la sua funzione, alta, altissima, di servizio pubblico, la domanda da porsi è fino a che punto l’azienda può concedersi il lusso di rischiare la necessità del Canone (obbligo di legge) inseguendo quel tipo di voyeurismo - uguale in tutto il mondo, intendiamoci - cui la concorrenza non più bipolare con Mediaset ma multipolare con Sky, La7, ecc. sembra incoraggiare.

Quando arrivò il fatidico 1984, che è il titolo del libro “profetico” di Orwell, ci si accorse ben presto che la sua profezia non si era avverata e che non si era materializzato il mondo degli inferi narrato dallo scrittore in cui l’occhio onnipresente del controllo del potere annullava qualsiasi anelito all’autonomia individuale, salvo l’eroismo di ribelli solitari. Più che al terrificante avvento del dittatore di “1984” che impediva la lettura dei libri, irregimentava corpi e anime, bandiva le informazioni e strutturava una neociviltà di schiavi grazie appunto all’onnipresenza del Grande Fratello, il percorso della televisione si è incamminato lungo strade all’opposto. È stato ed è un cammino, il suo, esattamente capovolto, proprio come lo indicava il grande Aldous Huxley nel suo “Mondo Nuovo”, la cui lettura dovrebbe essere obbligatoria nei corsi di laurea per televisione e spettacolo. Molti pensavano, a cavallo degli anni Trenta e Quaranta, che sia Orwell che Huxley profetizzassero le stesse cose a proposito di sistemi dittatoriali tramite il potere dell’informazione. In realtà, mentre Orwell annunciava l’avvento di un dittatore oppressore di ogni libertà perché strettissimo controllore delle esistenze, nella visione di Huxley non sarebbe stato nessun Grande Fratello a toglierci l’autonomia, la cultura e la storia per la semplice ragione che la gente sarà felice di essere oppressa e adorerà la tecnologia, in primis la tivù, che libera dalla fatica di pensare.

Ecco sfiorato il grande tema di una questione che giammai si esaurisce :la vediamo, la constatiamo, la godiamo quotidianamente. Il Grande Fratello orwelliano metteva al bando tutti i libri, mentre nel saggio di Huxley non ci sarebbe stato alcun bisogno di vietarli perché non ci sarebbe stato più nessuno desideroso di leggerli. L’uno temeva coloro che ci avrebbero privati delle informazioni, l’altro quelli che ce ne avrebbero date troppe, fino a ridurci alla passività, all’egoismo, alla insaziabilità. Altro che Grande Dittatore, ma, al contrario, un Grande Produttore di una cultura cafonesca, ricca di sensazioni a fior di pelle, di autentiche bambinate. Sicché anche uomini della cultura libertaria e razionalista, cioè il meglio dell’intellettualità, dimenticano sovente una regola tanto aurea quanto stringente: che l’uomo di ieri, di oggi e di domani ha un appetito pressoché inesausto di distrazioni. Nessun Grande Fratello terrà la gente sotto il suo ferreo controllo grazie alle punizioni, ma, semmai, con i piaceri. Non saremo distrutti da ciò che odiamo, ma da ciò che amiamo, dal piacere, dal divertimento del voyeurismo mediatico che rischia di minimizzare il ruolo della stampa e il suo impulso alla lettura riflessiva. E infatti, nell’Era dello spettacolo che stiamo vivendo, e di cui la televisione, in primis la Rai, è una della massime produttrici in virtù del fatto che il medium ha preso il posto di (quasi) qualsiasi altra ogni forma di comunicazione, “divertirsi” sembra lo scopo primario non solo del nostro tempo libero ma della nostra vita. Il fatto è che anche nel “divertimento” si insinuano le tentazioni del Grande Fratello, ma nella loro manipolazione spettacolare e comunicativa influiscono sul discorso pubblico, cioè la politica, il potere. Se infatti non riusciamo più a sottrarci al dominio televisivo, alle immagini dinamiche e in rapida successione (la tv), gli stessi fondamenti del pubblico discorso (esposizione, contraddittorio, spiegazione) si mutano ora in forme di attrazione ora di intrattenimento. E siamo al punto dolente. Al punto in cui all’antica arte della dialettica subentra il bombardamento unidirezionale di messaggi, insistiti e ripetuti ad horas, del protagonista politico (Premier) nel tentativo di “formare-deformare” la pubblica opinione mettendo fra parentesi la stessa logica della democrazia. Tanto più se la legge attribuisce una vera e propria onnipotenza al direttore generale, divenuto il dominus di un sistema-servizio solo a parole definito pubblico. Appunto: la Rai è ancora il Sevizio pubblico radiotelevisivo?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:00