Atatürk, Erdoğan,   turismo e terrorismo

Chi non è mai stato, almeno di passaggio, in Turchia? E chi non ama trascorrere vacanze e week-end in quei luoghi di un Medio Oriente che non è ancora Oriente e neppure Occidente? Luoghi resi vicini e possibili dal turismo di massa, dagli spostamenti rapidi e dalla mobilità garantita dalla mai abbastanza lodata società aperta. Il terrorismo sa come e dove colpire. E il turismo e i suoi luoghi sono i preferiti dagli assassini islamici dell’Isis ispirati alla Jihad, tema di bruciante attualità su cui ci illumina con lucida e profonda attenzione “Turismo e terrorismo jihadista” di Nicolò Costa edito da Rubbettino Editore, laddove questo termine significa l’altissima professionalità di un autore sociologo del turismo e dello sviluppo locale nonché docente all’Università degli Studi di Roma-Tor Vergata e coordinatore- presidente del corso di laurea in Scienze del turismo. Un esperto fra i maggiori, dunque. E la sua recentissima opera è di estrema utilità per inoltrarci nei territori provocati dal terrorismo, nelle pagine terribili, sanguinose e persino inspiegabili per noi laici, europei, occidentali e liberali. Ma anche, a volte, autolesionisti. Difatti: c’è ancora un coro conformista e un tantinello razzista del politicamente corretto, del multiculturalismo e del radicalismo critico che riconduce, in modo esasperato e unilaterale, le cause della rivoluzione islamica e del terrorismo jihadista alle colpe dell’Occidente laico: materialismo spinto con modelli culturali “scandalosi” connotati da piaceri materiali da diffondere irresistibilmente nel mondo, compreso - innanzitutto - quello “chiuso” dell’Islam integralista.

Il grande Kemal Atatürk rivoluzionò la Turchia del post Impero ottomano oscurantista e clericale imponendo lo Stato laico nel solco delle esperienze occidentali. Recep Erdoğan si proclamò suo erede politico ma finì, anche lui, col tradirne lo spirito laico avvicinandosi, per interesse e per paura, ad una sorta di Islam di stato per la sua fedele adesione coranica, seppur temperata dall’oggettivo e in larga misura irreversibile sviluppo occidentale del proprio Paese. Di Erdoğan si sono viste volte, svolte e giravolte ben occultate da una mai placata memoria del retaggio imperiale, al punto da guardare alla Siria malconcia come ad un oscuro oggetto del desiderio di tale retaggio, finché, dopo l’ennesimo capovolgimento, il leader turco ha imboccato la strada giusta e giudiziosa di accordi con la Russia e Israele, due interlocutori forti in una zona dal ventre molle e dai kamikaze sempre in azione. Come l’altra notte all’aeroporto Ataturk di Ankara, luogo quanto mai simbolico, non solo o non soltanto per il nome che porta, ma per la funzione fondamentale del luogo considerato di insostituibile importanza nell’economia turca e del suo turismo, come punto di arrivo e di partenza di migliaia di voli. E di turisti, per l’appunto. Non dimentichiamo che da questo aeroporto passa oltre il quaranta per cento del turismo, voce importantissima nell’economia turca.

Le granate fatte esplodere insieme ai kamikaze dell’Isis colpiscono, non certo casualmente, un Paese cerniera che ha già subìto attentati terroristici e che interessa la Ue (e, in primis, la Germania) sia per la sua partecipazione alla Nato sia per la vicenda delle ondate migratorie dalla Siria, Iraq e dintorni destinate a risalire i Balcani suscitando paure di Paesi come Austria, Ungheria, Bulgaria e la stessa entità storica di Schengen, che altro non è o dovrebbe essere, che il concetto stesso di Europa di oggi. E invece, e non a caso, causa di oscure paure nella Gran Bretagna della Brexit, ma non solo. Ebbene, l’eccellente libro sopracitato di Nicolò Costa ci consente, come una sorta di Baedeker dei nostri tempi insanguinati dal terrorismo islamico, di esplorare a fondo alcuni perché, in genere sottovalutati, degli attentati seguiti all’11 settembre 2001. Perché tali attacchi mortali ai molteplici luoghi del turismo, del tempo libero e dell’ospitalità sono, per dir così, interni alla rivoluzione islamica iniziata con Ruhollah Khomeyni nel 1979 in Iran. E perché, come controcanto, i valori liberali del cosiddetto ceto medio internazionale, delle “vite mobili” che viaggiano fra città e attraversano culture sono il più efficace contrasto al fondamentalismo e al terrorismo jihadista. E, infine, che fare da parte dei leader politici dell’Occidente, che azioni da intraprendere dagli imprenditori del settore, quali strategie politiche e comunicative sviluppare, quali linee d’azione per spingere gli islamici a riforme interne ed a rinnovarsi in funzione dei valori liberali dell’Occidente, irrinunciabili, insostituibili, senza se e senza ma...

Il libro ci aiuta a rendere sempre più saldi i nostri princìpi, ma anche a capire l’irrazionalità altrui e, quindi, a rispondere alle tante domande. Solo liberandoci da fasulli complessi di colpa e collocandoci fuori dai cori del conformismo del politically correct sarà possibile valutare appieno la forza economica e il potenziale politico del turismo (le vite mobili) in quanto veicolo di valori liberali da difendere e da diffondere anche presso il mondo islamico. Nella speranza se non nella convinzione, anche e soprattutto dopo la strage di Ankara, che “perfino chi è oggi fondamentalista o terrorista possa cambiare e abbandonare profezie, millenarismi, la causa religiosa dell’infelicità e dell’autodistruzione a cui i sono convertiti i martiri del terrorismo autoesplodente”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:03