La pena di morte come vendetta

La vasta repressione scatenata da Erdogan in Turchia subito dopo il tentativo di colpo di Stato militare, ma con tutta evidenza già predisposta da tempo, sta colpendo migliaia di persone in settori chiave della società, compresa la magistratura; e in molti casi semplicemente per sospetti che possano essere oppositori del suo regime.

In questo quadro, l’ipotesi di una reintroduzione della pena di morte è stata non solo avanzata dal primo ministro, Binali Yildirim, ma non esclusa dallo stesso Erdogan. In particolare, in un’intervista alla Cnn, questi ha dichiarato che “il popolo turco ha detto chiaramente di volere la morte per i terroristi che hanno organizzato il colpo di Stato”, aggiungendo: “Perché dovremmo tenerli e nutrirli in carcere, per anni? Questo è ciò che dice il popolo”.

La cosa più grave, e che non ho notato nei primi commenti su questo, è il fatto che Erdogan e il suo governo non sembrano preoccupati del fatto che un’eventuale condanna a morte per crimini – anche i più gravi, come il tradimento – compiuti prima della sua reintroduzione nel codice penale sarebbe una follia antigiuridica. Ora, il principio di non-retroattività delle norme penali (“nulla poena sine lege”) è un fondamento essenziale del diritto e qualcuno dovrebbe provare a ricordarglielo.

Sul piano del diritto interno turco, giustamente Sergio D’Elia, segretario di “Nessuno tocchi Caino”, ha spiegato a Radio Radicale che fin dal 1984 la Turchia aveva osservato una moratoria di fatto delle esecuzioni e già nel 2002 aveva abolito formalmente la pena di morte per i reati commessi in tempo di pace. Le modifiche apportate alla Costituzione nel maggio 2004 hanno poi cancellato ogni riferimento alla pena di morte, che nel luglio dello stesso anno è stata abolita dai codici per tutte le circostanze, compresi quindi i reati reati commessi in tempo di guerra o di imminente minaccia di guerra.

Per quanto riguarda il diritto internazionale, nel 2006 la Turchia ha ratificato sia il XIII Protocollo alla Convenzione europea sui diritti umani, che abolisce la pena di morte per tutti i reati, sia il Secondo Protocollo opzionale al Patto Internazionale sui Diritti civili e politici, secondo il quale “Nessuna persona soggetta alla giurisdizione di uno Stato parte può essere giustiziata”.

Un’eventuale reintroduzione della pena di morte in Turchia sarebbe paradossale perché la Turchia non solo ha sponsorizzato nel 2014 la risoluzione per una moratoria delle esecuzioni capitali all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ed era impegnata a farlo nella sessione che si terrà quest’anno; ma è anche membro del “nucleo forte” (core group) di tredici Stati che sostengono la campagna per l’abolizione universale e che hanno contribuito al Congresso mondiale contro la pena di morte svoltosi a fine giugno ad Oslo, che ho avuto l’onore di coordinare.

A questo proposito, l’organizzazione Ensemble contre la peine de mort, organizzatrice del Congresso, in un comunicato ha chiesto a Erdogan di “rispondere al tentativo di colpo di Stato con più democrazia e Stato di diritto, che non è in alcun modo un'ammissione di debolezza”, oltre che di rispettare gli impegni internazionali. Il suo direttore esecutivo, Raphaël Chenuil-Hazan, ricorda che “la pena di morte è ovunque uno strumento di politica repressiva per mettere a tacere la democrazia a favore della forza e della massima violenza, che è il crimine di Stato. Sappiamo quando inizia, ma mai quando si fermerà”.

(*) Membro della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo e del Consiglio direttivo di “Nessuno tocchi Caino”

(**) Nella fotografia di Yuliya Vassilyeva, la marcia internazionale che ha concluso il Congresso mondiale contro la pena di morte svoltosi ad Oslo nel giugno scorso

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:58