Io dico: forza Parisi!

Ci sono tanti (troppi) modi per fare politica, come si dice, ai vertici. C’è il candidato silente, il candidato loquace, quello urlante e, infine, quello che ci vuole. Il candidato, cioè, che ci vuole non solo in un partito e - quel che è più complesso - in un’alleanza. Ma che ci vuole in un’area che da tanto tempo (si sa, il tempo passa in fretta) è incapace, quasi immobile, certamente immobilizzata sia sull’eredità del capo (avrete capito che parliamo di Silvio Berlusconi) sia, soprattutto, sul “che fare” in un centrodestra che ne ha bisogno come dell’aria che respira.

Noi abbiamo di volta in volta riservato a quest’ambito politico crediti ma anche critiche, naturalmente allo stesso big boss, già allora quando il bacio mattutino della sua pantofola era il rito più diffuso e praticato dal suo, come si dice, stato maggiore. E anche agli altri, non foss’altro perché hanno sprecato tempo e voti al Governo senza combinare molto. La persecuzione del Cavaliere, indegna ma avvenuta, ha fatto il resto e il leggendario stato maggiore si è dissolto e sparpagliato. E chi oggi, da sparpagliato, si illude di ritornare allo “status quo ante”, dimentica la massima dei grandi filosofi greci su casi analoghi: nulla sarà più come prima.

Ma il problema non è (solo) questo. Oggi ci interessa quanto bolle in pentola all’interno del calderone di Forza Italia in cui il Cavaliere sembra aver ripreso un’iniziativa, al di là e al di sopra delle scadenze referendarie. Sembra, e lo dico con un ottimismo ansioso perché il suo progetto non appare dei più facili anche e soprattutto in relazione a quel borbottante calderone dove, a parte i bolliti (e sono tanti), non mancheranno punture di spilloni, aculei ad hoc, risse interne. Si tratta infatti dell’iniziativa, quasi data per certa almeno dall’informato quotidiano “Il Foglio” in felice contemporanea con “La Stampa”, riguardo una possibile leadership nazionale di Stefano Parisi. Lo scriviamo d’d'emblée, senza attendere i prevedibilissimi distinguo interni a Forza Italia, ben sapendo, tra l’altro, che un partito non del tutto in ottima salute volge il timone più in direzione degli scogli del dissenso interno che verso il mare aperto della progettualità al servizio di un disegno politico. Eppure, eppure...

Eppure la svolta che Berlusconi sembra volere imprimere puntando - in effetti non da ora, come sappiamo - su Parisi, non soltanto è meritevole di ogni consenso ma, direi soprattutto, è l’unica possibile. “Tertium non datur”, nella misura in e con la quale la misurazione delle altre leadership interne è men che meno inadatta se non mediocre e, comunque, affatto incapace sia di raccogliere un’eredità preziosa sia di conservarne gli aspetti più identitari, più significativi, culturali, starei per dire storici se non soccorresse il freno moderatore. Eredità da raccogliere non significa affatto “mettere in un cantone”, per dirla coll’indimenticabile Piero Mazzarella, il suo portatore esistenziale che, come ha ricordato proprio Parisi, è e sarà sempre il fondatore di quel soggetto politico che ha comunque segnato un ventennio. Nel bene e nel male, come si dice. Ma il punto è che questo soggetto è entrato, da qualche anno, in una crisi di consensi di cui ci interessano, qui, poco le ragioni (giudiziarie in primis) ma molto le possibilità di un percorso politico da oggi in poi che lasci alle spalle la criticità drammatica che, peraltro, ha quasi dimezzato Forza Italia.

Ciò che rende valida e dunque possibile l’ascesa di Parisi ai vertici, se non addirittura alla guida di un partito che qualche settimana fa ha rischiato di essere risucchiato dall’alleato salviniano - di fatto alternativo al suo disegno complessivo - è stata appunto la distanza dialettica, in un certo senso soft ma effettiva, assunta da Parisi nelle elezioni milanesi dove il risultato finale ha confermato che quella distanza, al dunque meno soft, sui temi di fondo era necessaria non soltanto per contenere il massimalismo populista leghista, quanto, soprattutto, per raddoppiare la Lega nel risultato finale. Che ha sorpreso amaramente i soccombenti e persino qualche “risietta” (mettimale) interno a FI, ma non noi che da anni ci ostiniamo a credere che la più autentica storytelling berlusconiana consisteva e consiste nel tenere la barra dritta del liberalismo, dell’innovazione, della modernizzazione, del garantismo e della rivalutazione del ruolo della politica resa ancella di certe toghe appoggiate dai forcaioli di ogni risma, compresi non pochi chierichetti alla messa salviniana con le sue non infrequenti giaculatorie forcaiole in preoccupante sintonia col giustizialismo un tanto al chilo e per ognuna delle 5 Stelle.

Ma, si dice, Parisi ha perso rispetto a Sala e questo conta. È vero. Ma lo è innanzitutto per Matteo Renzi che, infatti, ha abbassato toni, arie e spocchie varie. Parisi no, ha assunto iniziative chiare e utili sul tema drammatico dell’immigrazione a Milano, e non solo. E, diciamocelo, quanta diversità fra la batosta di Renzi e la perdita di Parisi, avvenuta sul filo del rasoio nei confronti, tra l’altro, di un candidato agevolato assai dall’Expo e dall’appoggio incondizionato del Premier, allora sulla cresta dell’onda. Allora... E se ci mettiamo, in questa vicenda, i voti leghisti mancati al ballottaggio per Parisi, ben si capisce quanto danno arrechi agli stessi autori l’aver negato consensi ad un alleato che non solo sarebbe stato (anche) il loro sindaco in quanto uno dei migliori fichi del bigoncio, ma anche e soprattutto un leader in grado di portarli al Governo, il posto nel quale ogni partito può esprimere il meglio di sé. Ma questo, forse, alla Lega di oggi interessa meno dell’uscita dall’Euro, dall’Ue e da Schengen. Sempre fuori, per dire.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 19:43