Il M5S è il problema, non la soluzione

Sbagliando s’impara, era la ricetta della nostra nonna. Temiamo non applicabile a tutti, in special modo al “Nuovo che avanza”, in politica. E non da oggi che vede il “Nuovissimo” nelle vesti del Movimento 5 Stelle. Ma dico subito che vogliamo lasciare perder Virginia Raggi e i suoi derivati, pardon, derivazioni. Lasciamo anche perdere la deprimente iniziativa pentastellata lombarda contro il consigliere Mario Melazzini accusato di non si capisce bene cosa su ricette e permessi medici. Che squallore. Due casi, due fatti, due simboli, ma quanti ce ne sarebbero. Fatto sta che per molti dei pentastellati il volare basso è diventato una norma, a volte per depistare ma, quasi sempre, per assenza totale di iniziativa politica. Che è il morbo che affligge, per l’appunto, il più nuovo non-partito italiano. Giustamente schiaffeggiato dall’implacabile “Economist” come assiomaticamente “unfit” a governare, anche “perchè gli sforzi per sollecitare gli input dei cittadini hanno prodotto una piattaforma confusa”. E risparmiamo ai lettori il resto degli “unfit” per i pentastellati che, in verità, fanno di tutto, ma proprio di tutto per confermare l’impietosa diagnosi dell’auotevole giornale inglese.

Il fatto è che il morbo suddetto sta infettando il Paese soprattutto perché è la rappresentazione delle non qualità italiche, delle sue peggiori derive che vengono da lontano e sulle quali proprio loro, i pentastellati, hanno urlato l’orrido “vaffa” autoproclamandosene immuni oltre che giudici popolari contro la casta, la vera, unica e non emendabile responsabile, dipinta né più né meno che come un’accolita di potenziali e spregiudicati criminali, collegati spesso alla mafia, al malaffare, alla criminalità organizzata e, of course, alla corruzione endemica al servizio dei potenti del sistema (lobbies, massoneria, ecc.). Cosicché, nel giro di pochi anni, il grido animalesco grillino ha ben raccolto, dopo una simile semina fatta in nome, ovviamente, dell’onestà, mi raccomando: ripetuta tre volte, forse per farsi sentire meglio dalle toghe, gli unici, i supremi, gli indiscutibili e indiscussi paladini della giustizia. E guai a qualsiasi personaggio pubblico che non si dimetta all’arrivo di una comunicazione giudiziaria: un avviso di reato è già una condanna. Giustamente è stata loro rimproverata (da Claudio Cerasa) questa mirabile “linea dello sputazzamento” che consiste, essenzialmente, nel diagnosticare in ogni comportamento politico altrui una voluta degenerazione, una programmata voluttà di reato, per cui ogni incontro legittimo fra i partiti è un’occasione di inciucio o inciucione, magari affaristico, di certo lottizzatorio, per sistemare parenti, amanti e amici, sullo sfondo di un contesto in cui Trilateral e Bilderberg la fanno da padroni e le lobby di potere imperversano a spese dello Stato “che siamo noi!”. Uno Stato, per di più, sempre prono alle volontà Usa, insensibile al grido di dolore dei Palestinesi, incapace di prendere l’unica vera decisione sull’Euro, cioè di uscirne, ecc. ecc..

Siccome il detto “male non fare, paura non avere” non appartiene loro, eccoci che al tirare le somme della loro imbarazzante ma pur sempre orgogliosa impreparazione vengono al pettine i nodi sequenziali in una sorta di capovolgimento delle cose che è asimmetrica eppure illuminante della dura lezione che la politica presa in giro infligge sempre agli incauti, benché impennacchiati, trasgressori. Cosicché non casualmente viene finalmente messo sotto la lente il noto, notissimo Luigi Di Maio, una specie di vice capo amato d’antan. Il caso di Di Maio, assurto al ruolo dello statista che tutto il mondo ci invidia, è l’emblema di tutto ciò nella sua fatale coazione a ripetere esattamente per filo e per segno i sentieri comandati ma capovolgendo letteralmente i pregiudizi sbandierati sugli stessi per cui, se lui in persona incontra una lobby, questa diventa seria e pulita, e se i suoi sindaci lottizzano non è vero, ma fanno semplicemente una scelta dei candidati migliori, anche se parenti, purché bravi, si capisce e non da discriminare. Non solo, ma se, putacaso, un sindaco grillino viene indagato-incriminato, non dovrà assolutamente arrendersi ai teorizzatori delle dimissioni tout court, alla giustizia sommaria, devono anzi continuare a lavorare per la città che li ha eletti, a realizzare la rivoluzione che incarnano. Parola pericolosa e comunque impropria, quando basterebbe risolvere i problemi quotidiani dei cittadini per meritarsi l’appellativo di bravo sindaco. E invece no, loro, i seguaci della Grillo & Casaleggio, sono stati investiti dalla missione di aprire il Parlamento come una scatola di tonno e non, invece, di dire cosa pensano, in politica estera, chessò, della Brexit, della Siria, di Erdogan, di Israele, del duo Clinton-Trump, ecc. ecc..

Siccome è più facile contestare e insultare gli avversari che governare, rieccoli con la semplificazione di ogni problema, dalle banche ala Rai, per dire, a base di una demagogia propositiva e di una sloganistica che hanno già le rughe non soltanto per l’insopportabile déjà-vu, ma per il tremendo vuoto sottostante. Volevano essere la soluzione, sono diventati il problema.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:58