Partito Radicale:   pullman per Rebibbia

La scelta del carcere di Rebibbia come sede del 40esimo Congresso straordinario del Partito Radicale ha animato nei giorni scorsi diverse discussioni in area radicale, sfociate a tratti in prese di posizione decise, se non addirittura violente, che hanno toccato, intrecciato e sovente confuso diversi piani della questione. Ritengo inutile qui fare la cronaca dei vari passaggi, nonché riferire le diverse opinioni di coloro che le hanno espresse per mappare schieramenti (altri lo hanno fatto e lo stanno facendo), mentre credo sia importante esaminare nel dettaglio proprio i piani di discussione.

Il primo è un piano simbolico: qual è il significato del tenere un Congresso in carcere e come questo fattore da solo finirà per connotare questo Congresso rispetto alla storia del Partito Radicale?

È evidente che il carcere non è un luogo neutro per tutti gli argomenti: alcune tematiche vengono amplificate più di altre dal contesto. È senz’altro il luogo naturale in cui parlare dei mali della giustizia italiana, dalla condizione dei detenuti all’irragionevole durata dei processi; insomma di tutti i motivi che hanno spinto i radicali a chiedere a gran voce da anni un’amnistia per la Repubblica, ossia l’adozione di provvedimenti eccezionali - eccezionali forse perché semplicemente ragionevoli - per far uscire immediatamente il nostro sistema-giustizia- informazione dall’illegalità in cui versa e che mina alla radice la possibilità che questo Stato si possa a ragione definire “Stato di diritto”. Ancora, è quantomeno opportuno rilanciare dalle carceri altre proposte positive di civiltà giuridica, quali l’abolizione dell’ergastolo ostativo e l’introduzione del reato di tortura. Questa opportunità offerta dal carcere come cassa di risonanza simbolica è stata ritenuta da alcuni esponenti dell’area radicale un limite e un rischio: quello di schiacciare il dibattito congressuale su una tematica che è stata perlopiù appannaggio negli ultimi anni di alcuni dei soggetti costituenti quali Radicali Italiani e le liste elettorali di scopo di “Amnistia Giustizia e Libertà” e, da sempre, di “Nessuno tocchi Caino”. Questo schiacciamento sembra a molti inopportuno in un momento storico in cui il Partito Radicale senza Marco Pannella dovrebbe alimentarsi di un ben più ampio orizzonte dibattimentale che restituisca il senso della sua eccedenza nonviolenta rispetto ai soggetti costituenti e il suo carattere di transnazionalità.

Perché non basta il ricordare l’attenzione continua di Pannella al ruolo sintomatico della condizione delle persone detenute, il suo “siamo tutti detenuti” per fare tana libera tutti, né constatare che il tema della giustizia, anche se non affrontato in diversi Parlamenti con i medesimi provvedimenti nello stesso giorno, sia di suo un tema transnazionale perché non vi si può guardare che in ottica universale. Piuttosto la via per uscire da questa impasse “strutturale” è forse un’altra, ed è lì a portata di mano: riconcentrarsi sul titolo scelto per il Congresso, “da Ventotene a Rebibbia”, che rimandando al confino di Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e Eugenio Colorni, può allargare indefinitamente il perimetro del dibattito. Lo spostamento non è di poco conto: l’attenzione passa dal “che cosa” del simbolo, il carcere (= giustizia giusta ecc.), alle condizioni strutturali; Rebibbia come Ventotene, ossia marginalizzazione del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito come chiave di lettura politica sia del presente, sia della storia stessa del partito, per un disegno di probabile “subito” futuro per lo Stato di diritto, laico, democratico, federalista. In questa lettura strutturale, il carcere in sé rimane sullo sfondo, e ogni tematica può rientrare e connotarsi come propriamente radicale, in un momento storico in cui sempre più Stati, per ragioni di sicurezza, ricorrono ad uno “Stato d’eccezione permanente” di stampo militare e restrittivo della libertà.

Il secondo piano investito dalle riflessioni, ma anche dalle accuse, tra le varie parti è invece di natura tattico-politica. Si è insinuato, anche in maniera brutale, che i compagni radicali che hanno organizzato il Congresso - convocato straordinariamente da un terzo degli iscritti, a norma di statuto, ma ovviamente organizzato da alcuni, coloro che se ne prendono l’onere e vi lavorano concretamente - avrebbero scelto la sede eccezionale di Rebibbia per condizionare lo svolgimento dei lavori e i risultati delle votazioni. Il motivo è che l’accesso in carcere è regolamentato da procedure severe, chi vuole partecipare si deve registrare entro il 25 agosto. Non solo: sarà esclusa (o in ogni caso limitata) l’introduzione di telefoni e altri apparecchi che possano comunicare con l’esterno e i tempi di svolgimento dei lavori dovranno armonizzarsi con gli orari che potrà assicurare la direzione del carcere compatibilmente con le funzioni del complesso e dei turni di chi vi lavora, che non è esattamente personale d’albergo. Insomma sono esclusi o fortemente limitati, l’andirivieni di congressisti, accessi all’ultimo minuto, comunicazioni telefoniche fitte e tempestive e liste fiume di interventi prenotati. Queste restrizioni oggettive rischiano di soffocare il dibattito, nonché di trasformare il Congresso del Prntt in un’ulteriore tappa del percorso congressuale “tematico” nelle carceri di “Nessuno tocchi Caino” (l’ultima stazione toccata: carcere di Opera, Milano), anche in considerazione del fatto che i congressisti con maggiore libertà di movimento, adesione, partecipazione e iscrizione all’ultimo minuto a Rebibbia, saranno, paradossalmente, proprio i detenuti. E sono voti, si dice maliziosamente. Non che una larga partecipazione di detenuti sia un elemento negativo, tutt’altro. Ma da qui a rispondere a chi muove queste critiche “a te non te ne frega niente dei detenuti!”, come si è sentito in questi giorni, ce ne passa. Chissà perché quando sento frasi come queste, se chiudo gli occhi, mi si staglia nitida l’immagine di un panda. Il contro- argomento, il cosiddetto argomento “del passante”: il Prntt deve dare a chiunque, anche al “passante” estemporaneo che voglia entrare nella sala del Congresso, di parlare-iscriversi- votare. Questa posizione è incarnata nella più impattante cosiddetta eventualità dei “pullman”: Pannella stesso evocava la possibilità che qualcuno potesse organizzare dei pullman di iscrivendi al Prntt e presentarsi un minuto prima delle votazioni al Congresso e condizionare le elezioni degli organi. A questi argomenti si risponde che per il passante, se veramente passa, si vedrà cosa fare (un po’ vago), per i pullman invece si dice con sicumera (o con inconfessato timore che qualcuno stia veramente organizzando “truppe cammellate” in tal senso): “Sono cazzate, è un’ipotesi irreale”.

Il terzo ed ultimo piano non saprei come definirlo se non direttamente e semplicemente “politico”. In qualche modo sfiora sia quello “simbolico” sia quello “tattico-politico”, in quanto ha il suo fulcro nell’assunzione che proprio l’effettività delle condizioni in cui si svolge il Congresso sia il vero significante della sostanza del partito. L’eventualità del “passante” o del “pullman”, ancorché possa essere giudicato irrilevante (la prima) o remota (la seconda), non significa che il negarla o liquidarla come “cazzata” non pregiudichi a sua volta i lavori del Congresso. Negare quelle eventualità significa negare la possibilità che il Congresso sia esposto all’eventualità stessa come concetto, ossia che il Congresso sia evento tessuto di eventi, in cui nulla è prevedibile in anticipo. Questo credo costituisca la natura più propria del politico. E questo credo sia il vero significato della battuta di Pannella sui pullman. Se per i primi due piani ho esposto sinteticamente diverse posizioni, per quest’ultimo non ne trovo. È una prospettiva che la sottoscritta (e non solo) ha cercato più volte di evidenziare nelle assemblee radicali nei giorni passati, ma che è stata sempre riassorbita in uno dei primi due, evidentemente più funzionali al chiarire gli schieramenti.

Ogni piano esaminato rivela comunque un punto critico, e forse possiamo utilizzare il tempo che ci rimane da qui all’apertura dei lavori per cercare di scioglierlo o almeno di mitigarne i rischi. Per quanto il simbolo Rebibbia, la raccomandazione è quella di scegliere una presidenza del Congresso che non sia identificabile con una tematica specifica (tantomeno quella della giustizia giusta e correlati, che è più facile che venga fagocitata dal contesto) e che sia in grado per suo equilibrio di riportare il connotato simbolico fondamentale del Congresso a quello espresso dal richiamo a Ventotene.

Per quanto riguarda la messa in pratica strumentale di tattiche di accesso, i rischi potrebbero essere attenuati dal svolgere la seconda parte dei lavori fuori dal carcere in una sala presa in affitto, ma ad oggi questa ipotesi sembra irrealizzabile: 1) perché comunque fortemente osteggiata dagli organizzatori; 2) perché inizia ad essere oggettivamente difficile organizzare questo trasferimento in così poco tempo e senza altrimenti compromettere un sereno svolgimento dei lavori.

Si rimanga a Rebibbia dunque! Cercando di utilizzare in maniera virtuosa tutti i mezzi che la direzione carceraria potrà metterci a disposizione, in deroga parziale al regolamento: qualche accesso imprevisto dell’ultimo minuto e alcuni numeri di telefono messi a disposizione per chiamate dall’interno del carcere (se ne è parlato) e altre proposte potranno essere fatte nei prossimi giorni. Per quanto riguarda il terzo punto, l’unica possibilità di oltrepassarlo è riconoscere che è un punto. E qui non è un problema cognitivo, ma di (buona) volontà: non uccidere il Congresso, nemmeno per legittima difesa. Se manca questa (buona) volontà, unità politica prima che legalità, Rebibbia o non Rebibbia, simbolo o non simbolo, accesso o non accesso, presidenza virtuosa o non virtuosa, questo 40esimo Congresso straordinario del Partito Radicale è destinato ad essere un (non) evento di libertà di cui ci si ricorderà con amarezza.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:58