Burkini, radicali, identità

“In gioco non è il burkini, ma la difesa della Francia”. Questo, o un analogo, è il messaggio che ci viene da Cannes, la nota località balneare e turistica francese. La questione del burkini dilaga sui giornali di mezza Europa: forse è il tormentone dell’estate, ma fa senso. In questi stessi giorni la signora Angela Merkel ribadisce che il burka non è tollerabile in Germania, perché è una pratica che nega la democrazia, dove il “mostrare il proprio volto è fondamentale”.

Questioni, problemi simili ma – attenzione – non sovrapponibili. La Merkel ha ragione, il burka impedisce l’immediato e pubblico riconoscimento della persona, non può essere permesso in un Paese democratico. Ma nessuna condanna, nessun pregiudizio dietro un provvedimento che è solo di ordine pubblico. Una semplice disposizione di polizia è sufficiente a risolvere le questioni.

Il problema non è insomma quello dei migranti e/o di certe loro consuetudini che possono, ad alcuni, apparire non consone o assimilabili a quelle in vigore nelle democrazie dell’Occidente. Sempre più pressante si fa invece il confronto con il tema della difesa dell’identità (addirittura, l’identità nazionale) sollevato dagli oppositori dell’immigrazione ed emerso prepotentemente a Cannes.

Il tema delle migrazioni e dei migranti è stato esaminato e sviscerato, seppure confusamente, dal punto di vista dell’economia e/o della sociologia/demografia. C’è chi pensa che i migranti sono un’opportunità per il Paese di accoglienza, in quanto stimolano la produttività e fanno crescere il Pil e la ricchezza; c’è invece chi afferma il contrario, e cioè che essi sottraggono lavoro ai locali e/o determinano un eccesso di offerta lavorativa, facendo calare il livello dei salari. I primi in generale sostengono anche che la presenza e la commistione delle diversità offra utili stimoli per migliorare la società anche sul piano sociale, culturale, eccetera; i secondi invece affermano perentoriamente che il multiculturalismo comporti un abbassamento dei costumi e della qualità umana, specie se la mescolanza o vicinanza è con seguaci dell’Islam.

Questi sono certamente temi importanti, e sono in qualche modo giustificate o almeno comprensibili le diversità di approccio e le risposte ad inquietudini diffuse specie tra le classi e i ceti meno capaci di atteggiamento critico. Oggi però siamo andati molto più in là, e gli oppositori dell’immigrazione di massa stanno scivolando lungo una deriva molto pericolosa, perché carica di ideologia: quando si parla di identità vengono messi in moto meccanismi psicologici profondi e non facilmente esorcizzabili. Si pensi solo al referendum sulla Brexit, che ha messo in forse la tradizione di apertura e accoglienza tipica della recente storia della Gran Bretagna.

Il tema dell’identità è (o era) molto sentito dai radicali. A un non recentissimo congresso tenutosi a Chianciano, Emma Bonino lo affrontò lucidamente: per lei l’identità non era nelle “radici”, nel passato, nel Dna o nell’intoccabile “tradizione” tramandata dai padri, ma piuttosto nelle “fronde”, perché l’identità non può essere conquistata se non come processo vitale, come ricerca continua, affidata alla responsabilità del singolo. Le identità di gruppo sono, molto spesso, ataviche consuetudini accolte acriticamente, e molto spesso sono state di intralcio allo sviluppo scientifico e culturale di un Paese. E sovente sono state rimosse solo grazie a campagne e battaglie di singoli ma anche di gruppi e movimenti popolari. L’identità – del singolo, ripetiamo – è un processo di crescita che stritola, impasta e rinnova – anche dissacrandole – tradizioni e consuetudini, voglia di innovazione e di affermazione, obiettive necessità: un processo senza il quale c’è stagnazione, non solo economica ma anche etica.

Il Partito Radicale si presenta al suo 40esimo Congresso (1, 2, 3 settembre, nel carcere di Rebibbia) per rivendicare e ribadire questa concezione dell’identità. Tra i temi che verranno in discussione sarà anche quello, apparentemente solo statutario, del primato tra l’iscritto singolo e le associazioni sorte qua e là, rivendicando addirittura una egemonia di rappresentanza se non del partito sicuramente di Radicali Italiani. Nel partito è da sempre accettato il principio che il singolo, il “chiunque”, sia il vero protagonista della presenza e dell’iniziativa radicale, le associazioni sono state sempre viste come pragmatiche aggregazioni, formatesi attorno ad un tema o per prossimità territoriale, sempre pronte a sciogliersi quando ne venga meno la necessità.

Il Congresso vedrà – magari sotterraneamente – anche la battaglia per l’appropriazione del termine “radicale”. Anche questo è un tema che fa riferimento alla questione dell’identità. Sarà una battaglia largamente pretestuosa e in definitiva inutile. Marco Pannella ha più volte ricordato che, specie agli inizi, sarebbe bastata l’iscrizione al Partito Radicale dei membri di una sola sezione del Pci per impadronirsene. E Pannella replicava che in tal caso sarebbe stato sufficiente lasciare la vecchia e mettere in piedi una nuova casa. Il problema di fondo del Congresso dovrebbe dunque essere come far prevalere e affermarsi l’”essere” piuttosto che l’”avere”. Essere radicali dovrà sempre essere “spes”, anche “contra spem”, se necessario.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 19:34