Renzi “americano”, Governo abbandonato

venerdì 24 febbraio 2017


Si fa presto a dire: “Adesso stacco e me ne vado in California”. Talmente presto che al Matteo Renzi “americano” non potrà non venire alla mente la sorte di chi, abbandonato dal consorte, entra prima o poi in crisi, se già non ha un altro sostituto/a.

Non siamo esattamente - come argutamente ha notato il direttore Diaconale - ai tempi del Partito dei Contadini che il vecchio Partito Comunista dell’Unione Sovietica istituiva nei paesi assoggettati come specchietto per le allodole. In più e in peggio, la storia insegna che a ogni scissione di un partito di maggioranza segue quasi subito una crisi, o crisetta, dell’Esecutivo su cui poggia. Persino alla Democrazia Cristiana, onnicomprensiva e ipertollerante, capitava di assistere a qualcosa di simile, toccata agli altri alleati, in primis ai socialisti. Con le conseguenze ben note. E non si vede come non possa toccare a Renzi, frutto indubbiamente di quella cultura ancorché depurata dell’essenza ideologica - per dir così - che la contraddistingueva, ovverosia la capacità di contenere le più diverse sfumature e di rappresentarsi come architrave moderato del sistema.

Ciò che fa la differenza è proprio questo, e stupisce che un quarantenne leader di partito e di Governo non abbia compreso fino in fondo il senso più vero che avrebbe dovuto contenere la sua stessa rottamazione, vale a dire la conquista di una stabilità dopo averne rottamato i disturbatori onde garantire, appunto, la non più possibile accidentalità governativa. E il bello è che Renzi non poteva fare altro che guardare al modello di Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro, Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti se davvero quel tipo di rottamazione comportava la riconquista del mito della stabilità contrapposto all’instabilità stabile di quel modello da molti rimpianto. Sembra un gioco di parole, e forse serve anche ad adeguarsi al clima fantascientifico creatosi con la scissione del Partito Democratico, la quale ha brutalmente sancito come e qualmente a Matteo non possa riuscire la duplice riconquista, Governo e partito, proprio a causa della sua endemica impossibilità ideologico-caratteriale nell’arte della mediazione, della ricomposizione, dell’assorbimento di spinte e controspinte.

Poco di scientifico è stato messo in questa prospettiva ma, semmai, troppo di fantascientifico, come ricordava qualche giorno fa Claudio Martelli (“Il Giorno”) scrivendo di scenario fantapolitico e immaginando diverse prospettive fra cui la chiusura ancora più stretta del gruppo renziano e, al tempo stesso, il susseguirsi di eventi, fra cui le elezioni anticipate con la probabile vittoria di Beppe Grillo e la non meno probabile conquista - quella sì, vera - di un Luigi Di Maio per Palazzo Chigi, magari con l’astensione della Lega. In altri termini potremo assistere al “Governo delle astensioni divergenti” con lo stesso sciame dei partitini di sinistra a seconda che i provvedimenti riguardino l’immigrazione o il reddito di cittadinanza. Uno scenario quasi apocalittico per la settima potenza mondiale, ma anche il frutto di una serie di errori, certamente non del solo Renzi, il primo dei quali è la mancata, colpevole valutazione di ciò che, in politica, comporta una scelta e soprattutto una scelta scissionista.

Poco importa di chi sia stata la responsabilità primaria. Ciò che conta è che, il più delle volte, ad ogni divorzio politico segue una crisi di Governo con allegate le elezioni anticipate. E ancora peggio è illudersi che si tengano queste consultazioni con nuove leggi elettorali, proporzionale, proporzionale con coalizione premiata e così via. La cosa più probabile è che si torni presto a votare con la legge che c’è nonostante gli immancabili tentativi eroici di un Sergio Mattarella che, più che al “Mattarellum”, ha a cuore il futuro del Paese. Non è che la politica è sfuggita di mano ai suoi cosiddetti rappresentanti. È che non c’è più. Rivolgersi a “Chi l’ha visto?”.


di Paolo Pillitteri