Solo Sgarbi rompe il cortocircuito tivù

E vabbè che è il Servizio pubblico e vabbè che l’unanimità del più ipocrita dei politically correct è di stanza in Rai, da dove in un battibaleno si sbatte fuori una Paola Perego chiudendo una trasmissione non diversa dalle altre. Ma chiudere è fin troppo facile e comodo, in Rai, si capisce. Volete mettere invece l’ordine di un ospite, urlato in diretta al malcapitato conduttore, di togliersi dai piedi? È strano, molto strano che, almeno fino a ora, soltanto Vittorio Sgarbi (a parte un giustificatissimo stop dell’onorevole Gianfranco Rotondi) sia riuscito a rovesciare come un guanto la tendenza di tutti o quasi i talk-show a incarognirsi sulla casta (termine multiuso, lo sappiamo) invitando, per così dire, il conduttore ad andarsene lui, non Vittorio. Una provocazione, se vogliamo, una scenata che solo uno come lui (vi ricordate la memorabile trasmissione “Sgarbi quotidiani”?) riesce a produrre forse, anzi senza forse, perché la sua abilità spettacolare nelle cosiddette sceneggiate televisive è a prova di bomba, nonché frequente, il che trae in inganno nell’illusione che tale frequenza lasci, come si dice, il tempo che trova. Ma non ne saremmo così sicuri, tanto più che lo Sgarbi televisivo è, come dire, multiuso nel senso che sa molto bene quando impennarsi e quando restare placido, ma sempre con l’intelligenza, la preparazione, la cultura che l’“altro” Sgarbi, lo storico dell’arte, sa incarnare e raccontare come pochi in questo paese. In realtà è sempre la stessa persona ma, nel caso del talk sopracitato, ha detto e rappresentato con la sua “scenata” un desiderio, non tanto inconscio e assai diffuso fra i sempre più pochi telespettatori. Perché i talk, tutti o quasi, fatte le poche eccezioni per i Minoli, le Palombelli, i Bernardini e non sappiamo più chi, sono di fatto un folle cortocircuito televisivo, nella misura con la quale sono diventati “il palcoscenico formicolante di urla e vaffa che accompagna, solletica, enfatizza e accarezza per il verso giusto il malumore italiano dalla mattina alla sera, non solo alla Rai ma anche a Mediaset e nella rete di Urbano Cairo, La7”(Salvatore Merlo, “Il Foglio”).

E cosa c’è di più bello e di più divertente e di più utile del ribaltare la situazione con l’uguale e opposta messa in scena, come ha fatto Vittorio? Il detto “chi si somiglia si piglia” vale dunque per i nostrani talk-show che si inseguono l’un l’altro, da mane a sera, con una sostanzialmente identica cifra, quella del malcontento cavalcato da Beppe Grillo e vellicato oltre misura onde trarre benefici nell’audience che, invece, è per così dire scarsa; eppure, in suo nome, si moltiplicano le urla e le proteste pur sapendo che la conquista o la perdita di un mezzo punto non incide sulla carriera di chi conduce il talk-show, ma incide (eccome) sulla crescita del voto grillino. Nei sondaggi, si capisce, ma fare tendenza a senso unico in un talk-show è esattamente l’opposto di quello che una volta si chiamava confronto paritario fra idee diverse nel rispetto dello spettatore.

Ciò che francamente stupisce, e ci riferiamo all’azienda privata per antonomasia - giacché l’altra sembra irrecuperabilmente navigare sull’onda protestataria che va per la maggiore - è che l’impegno solenne di non parteggiare per la “voce del padrone” si è tradotto nel suo rovescio, quello cioè di parteggiare, più o meno consapevolmente, per la voce della ditta del suo maggiore e peggiore nemico politico, quella Grillo and Casaleggio associated che, lungi dal ringraziare, darà invece le metaforiche due dita negli occhi (e non solo quelli) in caso di vittoria elettorale. Portare acqua al proprio mulino partitico in virtù di un’azienda televisiva di proprietà non sarà elegante e chic, e neanche tanto corretto. Ma portarla a quella del nemico, come si chiama? Chiedetelo a Sgarbi.

Aggiornato il 03 maggio 2017 alle ore 11:08