Politica, mafia, antimafia, Falcone

La casta e i suoi castali sono termini riferiti essenzialmente alla politica, divenuta un punching ball quotidiano di accuse. Polis ridotta a un covo di mangiapane a tradimento, irrisa come un covo di mantenuti di lusso e pure incapaci, oltre che corrotti e pur pagati dalla comunità. In realtà tutti sanno e vedono che ci sono altre caste, altri “ensemble”, altre strutture ben più forti, ben più potenti e ben più decisive per tutti noi, a cominciare dalla magistratura: il potere forte più forte di tutti, e non da oggi. Un potere all’opera da decenni e decenni e che operò al suo interno “castale” anche ai tempi di Giovanni Falcone. Repetita iuvant, detto così, tanto per mettere qualche paletto alle rimembranze - non sempre rigorose e purtroppo omissive ed ipocrite nella casta più casta di tutte - di un accadimento che risale ad un quarto di secolo fa. E di un personaggio della nostra storia, non soltanto della giustizia, come Falcone.

Già ieri il nostro giornale ne ha indicato le coordinate di coraggio, da un lato, il suo, e dall’altro, di vergogne da parte dei suoi nemici dentro e fuori la politica e la magistratura. Parlare di Falcone prima della strage di Capaci - cinquecento chilogrammi di tritolo - serve per una ricapitolazione storica di un protagonista che era già entrato nella storia prima, molto prima di altri e con più meriti. Già alla fine degli anni Ottanta - come ricordava con lucida passione Claudio Martelli nel suo “Ricordati di vivere” - Falcone era il giudice più famoso del mondo, non certo per quell’auto pubblicità cui ci abitueranno certi suoi colleghi Pm ma per l’indiscussa preparazione anche internazionale in collaborazione con l’Fbi, e la formidabile serietà e il rigore delle indagini, che gli avevano consentito di portare alla sbarra decine e decine di imputati e, soprattutto, della “leggendaria” cupola. Era perciò naturale, addirittura ovvio, che potesse succedere al posto di capo dell’ufficio istruzione a Palermo, dopo Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto, suoi maestri.

Ma il Csm che combina? Salta fuori dalle toghe il criterio dell’anzianità, viene bocciato Falcone e promosso Antonino Meli, criterio che qualche tempo prima non era stato addotto per l’amico Paolo Borsellino, nominato procuratore a Marsala. Falcone si sente tradito, vittima di un inspiegabile intrigo, si sente ferito profondamente e ingiustamente alla luce dei successi del pool antimafia e del leggendario maxi processo alla cupola e alla sua architettura. Pool e maxiprocesso che vengono entrambi smontati in men che non si dica da Meli, con sentenze della Cassazione - beninteso - partendo dal presupposto che non c’è nessuna cupola e tanto meno una struttura verticistica ma, semmai, delle cosche locali operative in ambiti territoriali diversi. Le indagini si spezzettano, si frantumano e lo stesso pool antimafia viene sciolto.

Giovanni Falcone, rigoroso, garantista e colto, è così finito in una sorta di fossa dei serpenti attaccato all’interno e all’esterno della sua casta, e dalla politica di destra e, soprattutto, di sinistra (“do you remember” Leoluca, il palermitano?). Siccome stiamo narrando uno degli episodi più illuminanti, più esemplari e spesso più dimenticati della vicenda umana e professionale di Falcone; vale la pena ricordare come il grandissimo Leonardo Sciascia con i suoi indimenticabili “professionisti dell’antimafia” delineasse con insuperabile maestria i giochi, i trucchi, le bugie, le sparate demagogiche, le falsità e le ipocrisie anche e soprattutto di una sinistra, di un Partito Comunista Italiano, di un Luciano Violante che nulla fecero mancare negli attacchi contro il grande giudice, poi ucciso da cinquecento chilogrammi di tritolo a Capaci. E ci fermiamo qui, per carità di patria.

Aggiornato il 26 maggio 2017 alle ore 22:13