L’imbroglio mediatico

Ci fu un tempo, quando i “compagni” d’una volta pretendevano una riparazione non dovuta, che le parole della politica aleggiavano tra le nebbie dell’ambiguità. Per esempio, chiamavano “lottizzazione” la spartizione delle cariche dalle quali erano esclusi (pochissime!). Mentre, se le cariche toccavano anche a loro (quasi sempre!), la stessa spartizione la nobilitavano con il nome di “partecipazione democratica”. Bisogna dire che i comunisti erano esperti nell’uso orwelliano della lingua italiana, ma non erano i soli a storpiarla. Il mitizzato ‘68 portò con sé anche la diffusione di una neolingua bolsa ed oscura che generò diverse varianti gergali: politichese, sindacalese, burocratese e, tramite esse, l’imbastardimento della formulazione delle leggi e delle regole normative. Questo nuovo idioma allusivo ed oscuro è diventato il mezzo d’espressione del ceto dirigente, che disdegna di parlare e scrivere per farsi capire dagli ultimi, mentre ambisce ad essere considerato, accettato, apprezzato dai simili. Come scrisse Galileo, il nostro più grande scienziato, “parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi”. Era vero allora e più ancora oggi. La verità galileiana bisogna integrarla adesso notando che adoperare molte parole dove ne basterebbero poche è considerata una virtù, tant’è che i logorroici, i prolissi, i verbosi non vengono stigmatizzati ma benevolmente reputati facondi ed eloquenti. Questo carattere linguistico, una vera “sindrome del disprezzo del cittadino”, per quanto deleterio è solo un aspetto dell’imbroglio mediatico, da annoverare tra le cause fondamentali della decadenza politica della Repubblica italiana, passata nel volgere d’una generazione dalla partitocrazia all’oligarchia, entrambe però mitigate dal voto.

È tanto risaputo quanto incontestabile che l’opinione dei cittadini, specialmente in tempo di elezioni, venga determinata pressoché completamente dalla televisione e dalla radio, considerando pure che la cultura del popolo, nonostante la moltiplicazione e la pervasività dei mezzi d’informazione, come la rete, sta ad un livello inqualificabile. Secondo il “Rapporto sullo stato sociale 2017” pubblicato dall’università “La Sapienza” di Roma, il tasso di alfabetizzazione del 70 per cento degl’Italiani adulti è inferiore al grado “minimo e indispensabile per un positivo inserimento nelle dinamiche sociali ed economiche” (sic!). Detto altrimenti, e per doveroso omaggio alla chiarezza invocata da Galileo, circa trenta (30!) milioni di maggiorenni ed elettori non sono in grado di formarsi un’opinione fondata ed esatta sulle questioni politiche ed economiche. In base a che, dunque, votano? Umori, impressioni, inganni, superficialità.

Qui sarebbe insostituibile la radiotelevisione, se non fosse appagata dalla funzione pappagallesca di amplificazione dello sciocchezzaio nazionalpopolare, che, portato ossessivamente agli onori dello schermo domestico, diventa verità familiare. Fateci caso: tutte le trasmissioni d’informazione sono monopolizzate da un gruppetto ben individuato di opinionisti di varia estrazione ed autorevolezza, sempre gli stessi, non più di una quarantina, i quali dibattono da posizioni apparentemente contrapposte e danno solo l’impressione del pluralismo delle idee. La verità invece è che manca quasi sempre la voce che esprima un punto di vista davvero alternativo, quale, per esempio, il punto di vista, minoritario e/o inattuale, che prospetti un’analisi e una soluzione le quali, proprio perché originali e/o controcorrente, fuoriescono dal coro delle voci gradite agli ascoltatori. La Rai in particolare, pagata com’è dai cittadini con una specifica tassa, avrebbe il dovere di coltivare l’esplorazione delle possibilità nuove, la contemplazione delle idee autentiche, l’organizzazione di dibattiti qualificati, la diffusione delle verità scientifiche e dell’autentica cultura politica invece di lisciare il pelo alle futili inclinazioni degli utenti. Divertire, informare, insegnare sono doveri delle radiotelevisioni, che dovrebbero contribuire a smascherare gl’imbrogli anziché concorrere a perpetrarli. Il pluralismo delle voci è una vergognosa impostura quando le voci sono ragli e i soliti vocianti, somari.

Aggiornato il 26 maggio 2017 alle ore 22:06