Il fallimento dell’antimafia retorica

Ma se la mafia e le mafie si sono infiltrate in tutti i settori della società italiana, partendo da quella pubblica per finire a quella privata, a che è servita la lotta alla mafia proclamata ai quattro venti da trent’anni a questa parte?

La domanda è chiaramente provocatoria. Perché è fin troppo evidente come se non ci fosse stata un’azione repressiva nei confronti delle diverse organizzazioni criminali che infestano la penisola, il fenomeno denunciato dal Procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti sarebbe stato sicuramente decisamente più grave. Ma chiedersi se in questi anni l’Antimafia abbia funzionato al meglio, come indirettamente ha fatto il responsabile dell’Anticorruzione Raffaele Cantone quando ha rilevato come la lotta ai fenomeni corruttivi non possa essere condotta solo con la repressione, non solo è legittimo ma anche doveroso.

Ha funzionato la retorica della lotta alla mafia che ha prodotto fiumi di manifestazioni, dibattiti televisivi, fiction di prima e seconda serata, film in tutte le salse fino ad arrivare al trionfo della condanna, dello sdegno e dell’esecrazione a parole con la minaccia della scomunica per i peccatori di corruzione lanciata da Papa Francesco? E ha funzionato l’allargamento progressivo della legislazione emergenziale antimafia a ogni forma di reato riguardante la Pubblica amministrazione?

Roberti, affiancato dal Procuratore Roberto Scarpinato, ha chiesto alla luce della espansione mafiosa nel Paese la modifica del reato di associazione mafiosa con un ulteriore allargamento della fattispecie a ogni forma di affarismo legato alle attività pubbliche. Ma serve quest’ulteriore allargamento dell’emergenza antimafia per combattere un fenomeno a cui la stessa legislazione emergenziale non ha inferto alcun colpo decisivo?

Riflettere se basti la repressione antimafiosa per combattere la corruzione dilagante diventa essa stessa una emergenza. Perché non si può ignorare l’esperienza maturata negli anni passati. E si deve necessariamente incominciare a considerare che la corruzione non è la conseguenza di un vizio genetico degli italiani; vizio che comunque non potrebbe essere guarito con leggi più ampie e pene più severe, ma è il frutto inevitabile e perverso di un’organizzazione elefantiaca dello Stato che produce occasioni sempre maggiori di malaffare. Contro le mafie meno burocrazia, meno leggi spesso inapplicabili e contraddittorie, meno centri decisionali nei territori a diretto e stringente contatto con gli interessi delle lobby e delle consorterie locali. E, soprattutto, meno retorica ipocrita e trombonesca!

Aggiornato il 26 giugno 2017 alle ore 13:11