Il dirittismo italico

“Il diritto di avere diritti”, secondo Hannah Arendt in “Le origini del totalitarismo”, consisterebbe nel diritto di ogni individuo di appartenere all’umanità e di esserne garantito. Un diritto, dunque, non in sé, non in quanto tale, ma presupposto e prodromo dei diritti tangibili che conosciamo dalla storia e dalle varie Carte. Secondo Stefano Rodotà, che riprende l’espressione della Arendt come titolo del libro “Il diritto di avere diritti”, questo diritto dà luogo al “costituzionalismo globale” e al “costituzionalismo dei bisogni”, cioè un costituzionalismo che dovrebbe garantire quasi tutto perché tutti, nella società e nei suoi mutamenti, nazionali e internazionali, devono trovare una sanzione legale e giurisdizionale. Lasciando la poesia della Arendt nell’empireo etico e considerando la prosa di Rodotà alla luce del mondo reale, dobbiamo constatare che questi autorevoli pensatori fanno entrambi riferimento,  essendo tuttavia personalità imparagonabili,  al processo di espansione dei diritti personali, che per la Arendt consisterebbe nell’apparente paradosso dell’umamizzazione dell’uomo mentre per Rodotà nella prevalenza dei beni comuni sui beni privati.

Come ognuno può vedere già al primo accenno, sono temi e problemi d’importanza capitale. Eppure, per quanto riguarda quelli affrontati da Rodotà, “il costituzionalismo dei bisogni” appare piuttosto una variante verbale del tradizionale interventismo, sebbene elevato a sistema costituzionale. L’ingerenza pubblica, materiale ed immateriale e le “azioni positive” per fini di egualitarismo, sono intrinseche allo Stato amministrativo, addirittura coessenziali alla democrazia rappresentativa, che vive dei voti che riesce a “comprare” con gl’interventi politici, per lo più consistenti in atti di favoreggiamento di gruppi particolari. Quanto al “costituzionalismo globale”, se andiamo al concreto, ne abbiamo solo uno sotto gli occhi ed è quello storpio chiamato Onu. Avremmo pure Kant e il suo meraviglioso progetto “Per la pace perpetua”, ma è filosofia, per quanto altissima e lodevolissima.  

Nell’attesa della palingenesi, della trasformazione radicale delle strutture giuridiche delineata (e vagheggiata, pare) da Rodotà, resta il fatto che il suddetto processo di espansione dei diritti rappresenta un’impressione indotta dall’impazienza dei progressisti d’ogni colore, piuttosto che un fenomeno effettivo. Infatti, dal momento che l’evoluzione umana ha prodotto inintenzionalmente il nucleo di quelle libertà che oggi chiamiamo diritti fondamentali, cioè dall’Atene del V secolo a.C., non si può dire esattamente che i diritti si sono espansi, come un gas sottoposto a minore pressione. Quel nucleo semplicemente si è scisso mostrando i suoi elementi in relazione alle diverse circostanze sperimentate. L’espansione dei diritti, rettamente intesa, è null’altro che l’esplosione della libertà, la quale è una ed una soltanto: consiste nell’assenza del suo contrario, perciò essa è definibile solo “in negativo”. Il punto di vista di chi assume “il diritto di avere diritti” sembra essere invece quello di chi sostiene che il cittadino ha il diritto di concepire in sostanza la libertà alla stregua di un elenco aperto di specifiche rivendicazioni per sé e per i meritevoli ai suoi occhi. Tale punto di vista è poi il volàno di quel positivismo giuridico contraddittoriamente deprecato da chi invoca sempre più norme legali per ogni aspettativa. Quando predomina una libertà pensata e praticata come rimostranza, reclamo, richiesta, e non anche come limite, collaborazione, rispetto, contributo, la dottrina ufficiale del popolo diventa indefinita e la libertà si perverte nel dirittismo, come l’ho chiamato altrove (“L’ideologia italiana”, pag. 109), cioè: ogni pretesto legittima la pretesa di un diritto. Per contro, soltanto le pretese non pretestuose, in accordo con il nucleo immanente della libertà, hanno diritto di diventare diritti. Le altre, no. Anche per gli antichi era così. Per loro il diritto (tutto il diritto, non i diritti) proveniva dalla giustizia (ius a iustitia), non viceversa la giustizia dal diritto (iustitia a iure).

Aggiornato il 28 giugno 2017 alle ore 15:15