Verso il governo del presidente

Figlio di tanti padri e soprattutto dello smacco renziano nel referendum, con relative dimissioni - Renzi avrebbe fatto meglio a sbattere anche la porta dei vertici piddini, ma tant’è - il Governo Gentiloni non poteva di certo essere il frutto di una larga e politica maggioranza e si è fin da subito acquietato sul solito tran tran dei governi abilitati solo all’ordinaria amministrazione. A dirla tutta, aveva una straordinaria somiglianza con i leggendari governi balneari presieduti dal mitico Giovanni Leone, detti anche Esecutivi-ponte verso maggioranze politiche degne di questo nome.

Cosicché, almeno fino a qualche giorno fa, Palazzo Chigi ci è sembrato la sede del governo balneare o ponte, più che il luogo delle scelte di fondo e delle decisioni importanti, e ciò, si badi bene, con tutto quello che bolle in pentola, che bolle soprattutto nel Mediterraneo. Un po’ per il low profile impressogli da Paolo Gentiloni, un po’ per le mire di Renzi che resta comunque di questo Esecutivo un padre, sia pure non al settimo cielo, e un po’ per le obbligate strade delle mediazioni necessarie sempre e comunque per via delle inquietudini, le divisioni e le scissioni di un inquieto Partito Democratico, e in cui bisognava mettere il silenziatore alle divergenze interne.

Ma, alla fine, sullo sfondo di questo panorama non esaltante, le recentissime risse finora silenziate sono esplose sul supertema dell’immigrazione-sicurezza con quella sorta di braccio di ferro fra ex cattolici, più o meno di sinistra, più o meno dossettiani, ma, soprattutto, ministri. E che ha fatto nel frangente il segretario del Pd, nonché ex inquilino di Palazzo Chigi? Come si è mosso? Che moral suasion, come si dice, ha con fermezza raccomandato? Diciamocelo: Renzi ha fatto troppo il pesce in barile nello scontro fra Marco Minniti e Graziano Delrio, che ha rischiato di mandare a carte quarantotto l’intera baracca la sera che il ministro degli Interni aveva palesemente espresso il suo dissenso, e non soltanto con Delrio. Matteo voleva fare il mediatore là dove c’era spazio solo per decisioni ferme. Voleva, ha voluto, non prendere posizione fra l’uno e l’altro sapendo comunque che la strada maestra era quella tracciata da Minniti al quale questa sorta di equidistanza è apparsa ciò che era effettivamente, ovvero il fare il pesce in barile. E che non avesse tutti i torti, lo dimostrano i commenti renziani, ovviamente ex post: Minniti è bravo ma non può prendere cappello con chi dissente da lui, a Marco piace farsi dire bravo tutti i giorni, altrimenti... Minniti soffre un po’ di protagonismo, confermando, in queste riflessioni raccolte dall’ottimo Geremicca, che si trattava di un’equidistanza vagamente pelosa. Ed è stato questo l’errore di Renzi, di ritenere la sua mediazione un percorso obbligato evitando di solidarizzare fin da subito col ministro più esposto, di illudersi di sfuggire alle decisioni serie, necessarie, immediate e, specialmente, politiche come quella della gestione dell’immigrazione nella sicurezza.

Così (non) facendo la mediazione, quella vera e decisiva, è stata quella di Sergio Mattarella con un intervento a gamba tesa che ha subito difeso Minniti con parole chiarissime che, certamente, non sono state gradite ai fans delle Organizzazioni non governative e ai ministri assai poco amici, perché invidiosi, del gestore degli Interni in una fase così delicata. L’intervento del Quirinale ha avuto diverse conseguenze, oltre a evitare una crisi devastante per il Partito Democratico e per il Paese, sia nel rendere qualsiasi altro dissenso interno con Minniti come una contestazione al Colle, sia nel garantire a Gentiloni una navigazione più tranquilla, sia, infine, nel rendere esplicito il passo falso di Renzi che l’ha ridotto molto meno centrale di quanto volesse. Non più un governo balneare, uno qualsiasi, per la normale amministrazione, ma il governo del presidente. Come volevasi dimostrare.

Aggiornato il 09 agosto 2017 alle ore 18:40