Se la politica fa capolino oltre la piazza urlante

Abbiamo per puro caso assistito un paio di giorni fa all’irruzione nella piazza (davanti Montecitorio) del leggendario Alessandro “Dibba” Di Battista e alla sua fuga repentina dopo un simil-pestaggio subito e, alla sera, abbiamo voluto a tutti i costi seguire nei nostrani telegiornali il video di quella “piazzata”.

Dire che ne siamo rimasti colpiti sarebbe troppo banale se non fosse che, passando da un tiggì all’altro, ci ha afferrati un certo qual senso di nausea e non per il fatto in sé, ma per la versione pressoché identica trasmessaci dalla tivù, pubblica, privata e quant’altro. Tutti uguali, tutti coinvolti dalla medesima eccitazione per un punto in più di audience, tutti compresi dalla loro “mission” di strumenti al servizio del cittadino, tutti uniformati intorno al nuovo-vecchio linguaggio populista, scambiato furbescamente come indispensabile servizio di informazione per il cittadino.

Non una osservazione critica, neppure fra le righe, alla baldanza del pentastellato che era alla ricerca di uno spot pro domo sua, non un rilievo su un parlamentare che abbandona il luogo istituzionale e costituzionale delle leggi per il Paese in favore di un vellicamento della piazza che, invece, si colloca esattamente all’opposto di quel luogo, distante peraltro, quel giorno, una decina di metri. Tutti insieme appassionatamente, televisioni, deputati, demagoghi un tanto al chilo, manifestanti di vario genere con nelle orecchie le tirate della toghe per dir così alla Piercamillo Davigo, in nome, va da sé, del popolo. Bene, bravi, bis, cari telegiornalisti, andiamo avanti così, continuiamo a farci del male, e a farlo soprattutto all’essenza dell’informazione che coincide, più o meno, con la democrazia.

E che le cose stiano andando avanti, nei tiggì ma non solo, come l’altro giorno, basta fare un giro sui canali nelle ore canoniche e provare una vera e propria nausea da video. La piazza come metafora di un Paese nel quale le istituzioni preposte alla promozione, decisione e realizzazione degli obblighi, siano da tempo considerate una specie di ruota del carro, un noioso diversivo, quasi un surplus del quale si vorrebbe fare a meno in favore, appunto, di quella uguaglianza fra i cittadini, secondo quel dettato, a dir poco farlocco, dell’“uno uguale uno” scaturito dalla mente e dalla ditta Grillo & Casaleggio interessati (legittimamente, si capisce) allo sfascio del poco che resta.

Del resto, la piazza che detta le volontà alla politica - e non viceversa - è all’opera da oltre vent’anni - una durata che supera quella del regime del crapùn cui in questi giorni si guarda con una preoccupazione abbastanza malriposta - ma la sua essenza va ben oltre il sito in cui si manifesta, avendo ben altri modelli che non siano gli ultimi arrivati grillini. Più che piazza e risalendo nel corso degli anni di questa Seconda Repubblica, evidenziarne le origini, dell’una e dell’altra, nel fulgore di quel circo-circuito mediatico giudiziario che non solo non ci ha abbandonati ma si è per dir così arricchito, raffinato, organizzato e quindi istituzionalizzato nella misura con la quale le parole d’ordine del “tutti corrotti i partiti!”, “tutti ladri i politici!” ha di fatto cancellato prima i partiti e poi la politica tout court.

Eppure sembra che proprio la politica, anche col voto di fiducia e segreto, stia cercando di fare capolino nel bailamme odierno, in queste ore in cui pulsa sempre il battito cardiaco della folla piazzaiola sperando, alcuni di noi, che ne sopraggiunga un infarto tramite voto finale segreto, magari alla faccia delle strane insorgenze istituzionali di Giorgio Napolitano che sembrano volare alto, elevarsi au-dessus de la mêlée, forse per insidiare il Quirinale. Fa capolino, quel che resta della politica, proprio in virtù di una legge elettorale, buona o brutta che sia ma indispensabile in seguito ai veri e propri rebus dei niet della Consulta sui sistemi di voto, mettendo alla prova - forse l’ultima e poi ci sarà il “tutti a casa” - una sorta di nuovo patto, una forma, sia pure prematura e accidentata, di arco costituzionale in cui il patto fra alcuni partiti, ancorché sotterraneo, ci racconta di un’intesa istituzionale sostanziale che i grillini denunciano come disegno mussoliniano dimentichi di avere, proprio loro, proprio gli urlatori alla Luigi Di Maio, abbandonato il patto precedente per un sistema vagamente alla tedesca appunto per non accettare un patto istituzionale.

Chi è causa del suo mal pianga se stesso, e getti l’urlo populista nei loro amici telegiornali. Gli uni e gli altri, come suppone qualcuno, nel timore che la legge elettorale possa essere l’inizio di un nuovo corso politico. E allora, addio audience e voti a buon mercato.

Aggiornato il 12 ottobre 2017 alle ore 20:39