Tante accuse reciproche, sempre di meno al voto

mercoledì 1 novembre 2017


Fatta la frittata (in Catalogna), il presidente scissionista Carles Puigdemont se n’è andato in Belgio. Così come il Crocetta presidente se n’è andato allora, ma la frittata di una Regione abbandonata (quasi) a se stessa, è lì, tutta da vedere. E da mangiare, elettoralmente parlando, si capisce. Solo che, scorrendo l‘ultimo sondaggio di Demòpolis, soltanto un siciliano su quattro sa che domenica prossima ci saranno le elezioni regionali e siccome mancano cinque giorni alla data fatidica, non sembri così fuori posto parlare di poca frittata da mangiare.

Diciamocelo, se il 26 per cento degli elettori siciliani ignora l’appuntamento del prossimo 5 novembre, qualcosa non deve aver funzionato laggiù. A cominciare dalla fiducia che è crollata dal 33 per cento del 2006 al 12 per cento (dodici!) di oggi. Sempre secondo lo stesso istituto di ricerche, su 4,6 milioni di elettori, se ne recherebbero ai seggi circa 2 milioni, molto meno della metà degli aventi diritto; e di questi 2 milioni, se si considerano le schede bianche e nulle, i voti validi sarebbero di un milione e 900mila, con un’astensione del 55 per cento. Allegria! direbbe il grande Mike.

Spiega il direttore di Demòpolis, Pietro Vento: “Si avverte in Sicilia una chiara compromissione della fiducia  dei cittadini nei partiti e nelle istituzioni regionali. Una larga maggioranza dei siciliani appare convinta che la politica, anche per assenza o cattiva gestione delle risorse, non sia più in grado di incidere sulla vita reale delle famiglie e sulle prospettive delle nuove generazioni”.

In questo quadro sconfortante non è sempre facile fare pronostici, anche se i favoriti principali appaiono Giancarlo Cancelleri del Movimento 5 Stelle e Nello Musumeci del centrodestra, più il secondo del primo. Vista da lontano, da Roma o Milano, la situazione politica della Trinacria di oggi non appare così diversa da quella di ieri, a parte l’irruzione dei grillini e, se vogliamo, di Fava, entrambi in un’area di sinistra e comunque sempre lancia in resta nel denunciare l’avversario di mafiosità. Intendiamoci, la mafia è un cancro difficilmente estirpabile dalla sua terra natale, anche se il male appare meno grave e diffuso di prima. Fatto sta, però, che gettare contro il nemico politico l’accusa di contiguità mafiose diventa alla lunga una sorta di lasciapassare autoimposto ai presunti innocentissimi, salvo l’immancabile incidente di percorso. E proprio sulla strada di quelle accuse, la cui aggettivazione ad personam parla ora di impresentabili tout court, ecco che entra in gioco una sorta di reciprocità, magari ricorrendo, come si sente dire oggi, a un cugino in odore di mafia del candidato pentastellato, peraltro il professionista implacabile nel dispensare quell’aggettivo, soprattutto a destra.

Non solo, ma se ci si mette poi una procura o un tribunale nazionale a prendere di mira Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sempre col bersaglio della mafia, magari risalendo al secolo scorso, ecco che un’altra frittata è fatta. Ovverosia una campagna elettorale dove i temi e i problemi gravissimi di una Regione vengono per dir così in un secondo momento; anzi, non arrivano mai a una definizione e a una proposta in grado di rappresentare una progettualità coraggiosa fondata su una strategia capace di affrontare e risolvere non soltanto le emergenze ma, soprattutto, le tante, troppe cose che non vanno. E che non sono andate, per troppi anni.

La sensazione preelettorale degli osservatori non è né potrebbe essere diversa dalla stessa degli anni precedenti, nei quali si è giocato in malo modo sia il presente che il futuro di una grande e importante Regione dotata indubbiamente di risorse umane capaci e moderne purché le si mettesse al lavoro, le si coinvolgesse in un programma concreto, in un disegno di modernità, in una visione di un’altra Sicilia. E invece, e purtroppo siamo sempre lì, ai cugini cattivi. Peccato.


di Paolo Pillitteri