Il Natale e la crisi dell’Occidente

Si avvicina il Natale e si riaccende la polemica sui simboli della cristianità puntualmente oltraggiata dalle nuove divinità nichiliste del multiculturalismo. Il presepe? Urta la sensibilità dei non-cristiani, meglio non mostrarlo in pubblico.

I canti natalizi? Una manifestazione di arroganza sciovinista contro la diversità dei credi e delle culture, preferibile non cantarli. Se proprio piacciono i motivetti, è opportuno cambiare le parole dei testi e i nomi. In fondo, Rilù fa rima con Gesù e regge ugualmente la nota musicale. La liturgia della notte della nascita di Cristo? Un intoppo per l’ordine pubblico, per cui meglio celebrarla di pomeriggio. Come si fa con le partite di calcio più problematiche per la sicurezza dentro e fuori dagli stadi.

Ma se i multiculturalisti possono permettersi di smontare pezzo a pezzo le fondamenta della civiltà occidentale ciò lo si deve al fatto che coloro che dovrebbero avere cura di quei simboli, e di quei valori, hanno smesso di occuparsene. È stato Edmund Burke, padre nobile del pensiero conservatore, a dire: “Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all’azione”. Se non si crede più opportuno, o conveniente, lottare per difendere il perimetro della propria civiltà, è naturale che, prima o dopo, qualcuno pensi bene di invadere lo spazio lasciato incustodito. Si chiami Islam o in qualunque altro modo, fa lo stesso, il principio non cambia. Se ciò avviene non è colpa degli altri, ma delle sentinelle che non hanno dato l’allarme, delle truppe che non hanno serrato i ranghi e dei nuovi stregoni che hanno convinto i creduloni che essere pacifici significhi piegarsi alla volontà altrui senza opporre resistenza.

Ha ragione Massimo Cacciari a dire che “sono i cristiani i primi ad aver abolito il Natale”. Non l’hanno chiesto gli imam nelle preghiere del venerdì di sopprimere tutti i simboli della cristianità: lo facciamo da noi senza che qualcun altro lo suggerisca. Perché? In fondo, si può essere accomodanti su una canzoncina o su una capannina costruita col sughero, di meno sul nostro iPhone di ultima generazione. È l’indifferenza la cifra morale di questo tempo storico. Del Natale come momento spirituale fondante di una variazione cosmogonica non frega niente a nessuno. Del senso del sacro nella vita delle persone si è persa traccia da un pezzo. Ma cosa stiamo facendo? Possibile che è tutto e solo consumo, economia, spread, rapporti di produzione?

Non si tratta di essere cattolici, pagani o laici. La questione sta nella dimensione spirituale delle nostre esistenze che si va perdendo. Si può non credere a Cristo e alla sua discesa in terra, ma non si può smettere d’interrogarsi sul mistero della vita. Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? Sono ancora domande che meritano risposte? O preferiamo declassarle a motti di spirito per oziosi e perdigiorno? Già, l’azione. Che bella la città degli uomini che non si ferma, che produce a ciclo continuo, che non dorme, che brucia e consuma, che possiede, che monetizza. Anche i sentimenti. E l’Uomo, con la U maiuscola? Dov’è finito? L’uomo che ha smesso di pregare, di contemplare, di contenere in sé l’immenso dei mondi, di scavare le profondità dell’animo alla ricerca della pietra occulta: l’Uomo della Tradizione. La parola “Tradizione” viene dal latino tradere, significa trasmettere, tramandare. Cosa? La ricetta degli struffoli? Tradizione è trasmissione di Conoscenza di contenuto sacro; di valori sedimentati nelle architetture archetipiche dei Tempi d’origine, là dove tutto è cominciato. Tradizione non è un panettone servito in tavola.

Ha ragione Cacciari quando, nella sua intervista a “Il Giornale”, ammette che “La nostra società è anestetizzata, il Natale è diventato una favoletta, una specie di raccontino edificante che spegne le inquietudini”. Parliamo di una ricerca di spiritualità che pone le generazioni di questo tempo storico di fronte al problema di sapere forse immaginare, ma di aver smarrito la capacità metafisica di concepire le meccaniche superumane del salire in alto, della trascendenza. Del passare di livello. Del contemplare la vita “vivendola” su un diverso piano. Sarebbe tanto chiedere che anche l’uomo della strada cominciasse a preoccuparsi un po’ più della sua natura immortale e un po’ meno di dove trascorrerà le prossime vacanze? Nel regno della quantità non c’è bisogno di Dio, se ne può fare a meno. Ma è davvero questo che vogliamo? Un mondo che si priva del confronto con la ragione ultima di tutte le cose? Si può essere laici, ma non è controindicato credere.

Allora, viviamo il Natale per quello che è: una festa di luce. Una nascita. Le religioni tradizionali celebrano, nel periodo corrispondente al solstizio d’inverno, il passaggio alla fase ascendente del cammino del sole che segna il ritorno di presa di territorio della luce sul mondo delle tenebre. Del Bene sul Male. Fantasie per bambini? Harry Potter è fantasia. La rigenerazione, attraverso la festa, del tempo sacro nel quale la divinità si rivela al mondo, è atto reale dotato di straordinaria potenza. Massimo Cacciari sostiene che il mondo abbia dimenticato la dimensione spirituale. Se fosse totalmente vero vorrebbe dire che la nostra civiltà è diventata cieca. E sorda. E muta. Vorremmo che non fosse così, ma a volte assistiamo a comportamenti e a scelte che rendono drammaticamente imminente il pericolo dell’oblio per la nostra civiltà. In questi casi estremi la difesa non è solo un diritto ma un dovere categorico. Perché abdicare ai provi valori non è essere buoni: è essere morti.

Aggiornato il 30 novembre 2017 alle ore 21:26