Gli equivoci della democrazia

sabato 2 dicembre 2017


Delle tante definizioni adoperate per il vocabolo ‘democrazia’, tre sembrano le più appropriate ed utili.

La prima fu espressa in modo mirabile nel 1863 da Abramo Lincoln nella celebre orazione funebre di Gettysburg: “Government of the people, by the people, for the people”, il governo del popolo, attraverso il popolo, per il popolo (Garry Wills, Lincoln a Gettysburg, Milano, 2005, pag. 237). Questa definizione prescrive che il governo sia eletto dal popolo; sia sempre in consonanza con la sua volontà; sia durevolmente proteso a farne gl’interessi. È una concezione formale e sostanziale della democrazia, alla quale non basta una corretta procedura legale di elezione del governo, ma richiede anche un esecutivo collimante con le aspettative concrete del popolo. Questa visione insiste sulla selezione e sull’azione dei governanti, verificate dalla soddisfazione dei governati.

La seconda appartiene a Karl Popper. Nel secolo scorso il Filosofo ha sostenuto che “la democrazia non può compiutamente caratterizzarsi solo come governo della maggioranza, benché l’istituzione delle elezioni generali sia della massima importanza. Infatti una maggioranza può governare in maniera tirannica (la maggioranza composta da coloro che hanno una statura inferiore a 6 piedi può decidere che sia la minoranza formata da coloro che hanno statura superiore a 6 piedi a pagare tutte le tasse). In una democrazia i poteri dei governanti devono essere limitati e il criterio di una democrazia è questo: i governanti possono essere licenziati dai governati senza spargimenti di sangue” (Karl R. Popper, Il pensiero politico, Firenze, 1981, pag. 241). Insomma, la democrazia consiste del diritto del popolo di deporre pacificamente i governanti sgraditi. È la stessa concezione di Lincoln, quanto al potere del popolo sul governo. Ma ne differisce perché Popper giudica decisiva non l’investitura, ma la rimozione dei governanti. Inoltre, non carica la definizione con elementi contenutistici. Anzi, chi ama la libertà deve essere a favore del governo minimo “e quindi avvicinarsi alla mancanza di governo, all’anarchismo, che è un'esagerazione dell’idea di libertà” (Karl R. Popper, Società aperta, Universo aperto, Roma, 1984, pag. 26).

La terza, che risale al quinto secolo avanti Cristo, si trova nel libello di uno Pseudo Senofonte intitolato Athenaion Politeia, traducibile con ‘sistema politico ateniese’(Anonimo ateniese, La democrazia come violenza, Palermo, 1982). In questa operetta la parola democrazia non significa soltanto che il popolo comanda e dunque ‘governo del popolo’, ma anche, alla lettera, ‘violenza popolare’. Infatti nella democrazia gli onesti sono umiliati, depredati, esiliati, uccisi, mentre le canaglie la fanno da padrone. Ma sbaglierebbe chi pensasse che cose simili capitino nella democrazia malata. Al contrario, proprio questa è l’essenza della democrazia. Nella democrazia le cose devono andare così. Ogni tentativo di cambiarle non migliora il sistema. L’Autore vuole dirci che il sistema democratico è inemendabile dei maggiori difetti che gli vengono imputati. Sono possibili soltanto piccoli ritocchi e miglioramenti di dettaglio. La democrazia senza popolo non è possibile. Però nel popolo prevalgono gl’individui disonesti, brutali, cattivi, ignoranti, che si servono del sistema in cui comandano per infliggere alla brava gente, con la violenza del potere e con il potere della violenza, ogni genere di angherie e spoliazioni. La posizione dello Pseudo Senofonte porta a questo apparente paradosso. La democrazia esiste solo in simbiosi con il malgoverno, perché il buongoverno implica la soggezione del popolo. In democrazia, il popolo gode della libertà politica di comandare, ma tale preziosa libertà è purtroppo inscindibile dal malgoverno che lo stesso popolo è ineluttabilmente portato ad infliggersi.

Alla Lincoln, alla Popper, alla Pseudo Senofonte, la democrazia resta pur sempre auspicabile nel senso precisato da Churchill: “Nessuno pretende che la democrazia sia perfetta o assoluta. In effetti è stato detto che la democrazia è la peggiore forma di governo eccettuate tutte quelle altre che sono state provate di tempo in tempo” (Winston Churchill, Il sorriso del bulldog, Macerata, 2006, pag.13). Finché pensiamo al sostantivo, il vocabolo ‘democrazia’ evoca in genere un complesso di istituzioni e situazioni, di diritti e di doveri, che costituiscono una sorta di mescolanza delle tre versioni, con accentuazione ora dell’una, ora dell’altra, a seconda dei contesti sociali e dei periodi storici. Invece, appena consideriamo l’aggettivo corrispondente, le degenerazioni del concetto di democrazia appaiono in tutta la loro ridicola insulsaggine.

I partiti di sinistra, che hanno coltivato a lungo una democrazia pseudosenofontea che teorizzava e talvolta praticava la violenza di classe (per inciso, la violenza di classe d’impronta marxista collima quasi alla perfezione con la ‘violenza popolare’ dell’Athenaion Politeia), hanno propagato una superestensione dell’aggettivo ‘democratico’ fino ad utilizzarlo come una bacchetta magica che renda buone le persone, le cose, i mezzi, gli scopi. Insomma con un significato tanto positivo quanto vago. Per esempio, quel Tizio è democratico: non vuol dire sostenitore della democrazia, bensì individuo politicamente raccomandabile. Oppure, magistratura democratica: non designa giudici e procuratori elettivi, bensì magistrati progressisti imbelliti da strabismo giuridico.

Ancora, scuola democratica: non quella governata dagli alunni, ma quella dove l’insegnamento e i programmi realizzano una pedagogia egualitaria, conformista ed uniformatrice. Inoltre, genitori democratici: non quelli eletti dai figli, ma padri e madri amici della prole, piuttosto compagni e complici dei figli che loro educatori. Infine, incredibile a dirsi, la matematica democratica: quella alla portata di tutti, un’opinione da pazzi.

Trascurando le ‘democrazie popolari’ dell’Europa comunista, tanto false nei fatti quanto esagerate nel nome, la vetta della manipolazione del concetto è stata raggiunta da Muammar Gheddafi, che tenne una lezione sulla democrazia (proprio così, avete capito bene) davanti agli accademici e agli studenti dell’università ‘La Sapienza’ di Roma. Il dittatore libico usò queste testuali parole: “La definizione di democrazia. Prima di tutto la democrazia è una parola araba che è stata letta in latino. Democrazia: ‘demos’ vuol dire popolo, ‘crazi’ in arabo vuol dire sedia. Cioè il popolo si vuole sedere sulle sedie. Questa è l’origine etimologica della parola (sic!). Se noi ci troviamo in questa sala siamo il popolo, seduti su delle sedie, questa andrebbe chiamata democrazia, cioè il popolo si siede su delle sedie. Invece, se noi prendessimo questo popolo e lo facessimo uscire fuori, se avessimo invece preso dieci persone e le avessimo invece fatte sedere qua, scelte dalla gente che stava fuori, e loro invece sono seduti qua, quei dieci, questa non sarebbe da chiamarsi democrazia. Questa si chiamerebbe ‘diecicrazia’. Cioè dieci su delle sedie. Non è il popolo a sedersi sulle sedie, questa è la democrazia. Finché tutto il popolo non avrà la possibilità di sedersi tutto quanto sulle sedie, non ci sarà ancora democrazia”.

E aggiunse: “L’alternanza del potere vuol dire che c’è della gente che si prende e si trasmette il potere tra di loro. Se ci fosse democrazia non ci sarebbe un’alternanza di potere. La democrazia significa che il popolo detiene il potere. Come fa a consegnarlo a uno? Il popolo reale ha il potere. È per la democrazia popolare diretta. Come potrebbe eleggere delle persone perché lo governassero? Qualsiasi popolo che sia giunto al potere come lo è il popolo libico non lo cederà assolutamente. Il popolo libico è ormai arrivato alla fine del cammino, ossia l’esercizio della democrazia popolare diretta. Auguriamo che la raggiungano anche il popolo italiano e gli altri popoli del mondo. Finché ci sono le elezioni c’è la ‘rappresentanza’ del popolo” (Muammar Gheddafi, Corriere della Sera, 12 giugno 2009).

L’idea che la democrazia abbia a che fare con le sedie non appare del tutto estranea ad una nazione, come l’Italia, che spesso la pratica come lotta per le poltrone.


di Pietro Di Muccio de Quattro