Troppo Grasso che cola

martedì 5 dicembre 2017


Io non sono contrariato perché Pietro Grasso, Presidente del Senato, sceglie di rompere con il partito che, al termine della sua attività giudiziaria, lo ha fatto eleggere in Parlamento, sollevandolo anche dalla fatica di raccogliere una sola preferenza, e lo ha fatto diventare, alla sua prima esperienza politica, la seconda carica dello Stato. Lo sconcerto è dettato da altro.

Ad esempio, c'è da domandarsi come sia possibile che nessuno si chieda quali meriti politici potesse vantare, per essere portato in carrozza in Parlamento, il Procuratore Nazionale Antimafia, il quale, al pari di tutti gli altri magistrati, non perdeva occasione (fino al giorno delle dimissioni dalla magistratura, s'intende) di sottolineare la sua equidistanza dagli schieramenti dei partiti e la sua indipendenza. Si resta poi senza parole di fronte al fatto che nessuno, oggi, trascorsi cinque anni, si chieda quali azioni politiche siano collegate (o collegabili) al nome di chi, sedendo sullo scranno più alto del Senato, ha sempre ripetuto di rivestire una posizione di garanzia.

La prima volta ha lasciato la magistratura per scendere in campo con la maglietta del Partito Democratico; la seconda, cioè adesso, dall'alto del suo laticlavio, benedice l'ennesima formazione di sinistra. Ma, soprattutto, non si comprende né è accettabile, che i giornali, nel dare notizia della sua iniziativa, non omettano i suoi trascorsi nella magistratura. Uomo delle istituzioni, dice “La Stampa” e, altrettanto, evidenziano le agenzie. Giornalisti d'accatto che non hanno il coraggio di menzionare (denunciare sarebbe troppo) l'anomalia oggettiva della descritta situazione, che occultano ciò che in una qualunque democrazia liberale (non di sinistra, dunque) sarebbe considerato con sospetto e respinto con sdegno. Penne a stipendio del miglior offerente che pontificano su tutto e non dicono che, fin dall'inizio, la carriera politica di Pietro Grasso è viziata da un peccato originale: la negazione nei fatti dell’indipendenza della magistratura, condita dalla sensibilità dei magistrati in carriera alle sirene della politica.

Quando in campagna elettorale sentiremo dire, dai candidati della lista “Liberi e Uguali”, che gli altri sono impresentabili, ci sfiorerà o no il dubbio che c'è qualche cosa che dovremmo sapere e, invece, non sappiamo? Quale vantaggio produrrà nei dibattiti televisivi una semplice smorfia sulle qualità di un avversario politico? Questa non è informazione. Questa non è democrazia. Questo è troppo, insomma.


di Mauro Anetrini