Gentiloni come Andreotti? Sì, no, mah...

giovedì 14 dicembre 2017


Qualcuno che conta e che scrive ha paragonato l’attuale inquilino di Palazzo Chigi - a proposito, buon compleanno a Paolo Gentiloni che ha compiuto un anno (di Governo) - a un altro presidente che di anni ne ha passati più di uno al Governo e che, volente o nolente, politica o magistratura, successi o insuccessi, è diventato, come si dice, un personaggio leggendario: Giulio Andreotti.

In effetti c’è un qualcosa, all’origine, che trova simile ai due la nascita politica, ovverosia la Democrazia Cristiana o, per meglio dire, il Partito dei Cattolici, con un Gentiloni della Margherita per il quale vale sempre il detto semel abbas semper abbas, nel senso che la democristianitudine è una caratteristica indelebile. Vale a dire che l’immortale Giulio e Gentiloni conservano nel loro Dna questa tipicità ineludibile, che pone una sorta di sigillo a una storia politica che sembra non voler finire mai. Gentiloni ne ha ancora da sfangare rispetto al modello, ma almeno su una dote, chiamiamola così perché siamo buoni, gode di questa simbiosi e che riguarda quello che chiameremmo paciosità, un procedere piano e lento, una calma intesa, a volte, a sfinire l’avversario con risultati non sempre brillanti ma che servono a durare nel tempo e nel potere.

A parte il fatto che il divo Giulio era un ottimo scrittore, anche di se stesso oltre che di cronache varie e in questo Gentiloni non pare così dotato, aveva anche improvvise mosse e scatti all’insù soprattutto nella padronanza di battute spesso funzionali a smontare o rimontare situazioni, anche internazionali. Se Andreotti appartiene alla storia italica, nel bene e nel male, è troppo presto pretendere dal suo successore a Palazzo Chigi analogie di tal genere anche perché Gentiloni fa di tutto (ma proprio di tutto) per non finire nei libri di testo, cercando i percorsi improntati alla cautela, alla prudenza, al sopimento.

Appunto, lenire sopire, sopire lenire pare proprio il procedere gentiloniano per il quale, dopo un anno, è comunque giunto il tempo dei bilanci. Il nostro direttore ha ben inquadrato l’oggi e il domani elettorale riflettendo sulla quota 40, ovvero il quaranta per cento in cantiere e in previsione del centrodestra, a conduzione berlusconiana, beninteso. E già un bilancio, per il suo compleanno, l’ha esposto l’altro giorno l’interessato che, sempre nel solco della consuetudine discorsiva, ha puntualizzato coi numeri di leggi approvate, circa una ottantina, il rendiconto anche parlamentare ricordando ovviamente le cosiddette vicissitudini del renzismo e del dopo-Renzi.

Niente miracolismi, intendiamoci, ma almeno un miracolo (politico) può essere vantato senza tema di smentite o di euforismi fuori luogo, vale a dire la durata stessa di un Esecutivo su cui molti osservatori nonché nemici politici interni ed esterni auguravano qualche mese di sopravvivenza. Certo è però che, al di là di una normale amministrazione, non si può andare nei giudizi all’attuale governo, sia pure in un clima politico in cui i colpi allo stomaco (e non solo) non sono mancati e non mancheranno sol che si pensi agli urti e alle contestazioni accese provenienti dai campioni del populismo e dell’antipolitica sotto le insegne pentastellate, cui si accompagnano spesso gli attacchi provenienti dal Carroccio salviniano. Per il resto ci andremmo assai cauti anche se ci sovvengono le buone prove di un Marco Minniti agli Interni sui problemi non semplici come l’immigrazione, i clandestini, gli sbarchi. Se guardiamo alla politica estera, anch’essa avvolta negli schemi complessi di alleanze internazionali e di regole europee, il tran tran è stato ed è la conditio sine qua non, un vero e proprio esempio che sempre il latinorum sa cogliere e riassumere: il quieta non movere.

Prendiamo il caso di Gerusalemme capitale, su cui Donald Trump ha scatenato una sorta di bailamme tuttora in corso (ma che finirà presto) alla cui base, comunque, resta un fatto incontrovertibile, un punto fermo storico, per di più da tremila anni o giù di lì, nel senso che Gerusalemme è non solo la città santa dell’ebraismo, non solo il simbolo sacro del cristianesimo e dunque dell’Occidente, ma la capitale di un Paese per un popolo che ha saputo risorgere da persecuzioni e stermini dandosi uno Stato libero e democratico, in un contesto di vicini in cui i due aggettivi non sono mai stati di moda. Ebbene, come ha reagito la nostra politica estera? Recitando giaculatorie in favore dello status quo, precipitandosi a giurare che le cose vanno bene così, ispirandosi sempre e comunque a quella regola che sa anche di conformismo, di sudditanza, di scarsa autonomia. Il lenire e sopire è sempre di moda, lui sì. Come la democristianitudine.


di Paolo Pillitteri