Decadenza accademica, lauree svalutate

Nell’università italiana le punte d’eccellenza non mancano. I laureati sanno farsi onore, soprattutto all’estero. Quasi mai però ritornano in patria. Significa che lo Stato spende ingenti somme per generare una ricchezza che regala poi ad altre nazioni anziché utilizzarla all’interno per proprio vantaggio. Una politica accademica autolesionistica viepiù deprecabile considerando le ristrettezze finanziarie in cui si dibatte l’istruzione universitaria. Uno spreco ed uno scandalo, lo definì a ragione Carlo Ginzburg nel ricevere il premio Balzan. Ma, ecco l’altro grave aspetto della questione, mentre tanti valorosi italiani vanno all’estero, pochissimi studiosi stranieri desiderano venire nel nostro Paese. Alla domanda sul perché si è arrivati a questa situazione, il professor Ginzburg rispose: “La mia impressione è che in Italia si sia verificato un invecchiamento del sistema, la cui responsabilità va fatta risalire anzitutto a quei provvedimenti ‘ope legis’ che tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta hanno ammesso nelle università docenti senza concorsi in cui fosse valutata la loro capacità. Da lì si è innescato un meccanismo a cascata: mediocri che inevitabilmente scelgono persone più mediocri di loro. Si tratta di una legge ferrea o, se vuole, lapalissiana. C’è poi un fenomeno di corruzione, e non penso tanto alle mazzette, quanto a quei casi che ogni tanto si leggono sui giornali: la ricercatrice che decide di trasferirsi in America perché il suo professore ha preteso di firmare una ricerca cui non aveva partecipato. Un fenomeno diffuso soprattutto nell’ambito scientifico, dove sono comuni le ricerche collettive. Nel mio ambito, quello delle discipline umanistiche, spesso capita invece che ricercatori di primissimo ordine non trovino posto per la distorsione che porta i baroni, come si diceva una volta, a scegliere i candidati locali. È una situazione intollerabile”.

Le dinastie accademiche, testimoniate dall’altissima concentrazione, superiore ad ogni legge probabilistica, dello stesso cognome nella stessa facoltà o università, esprimono in ambito universitario quel clientelismo e familismo che appesta la nazione in troppi campi. La burocratizzazione dell’istruzione universitaria ha fatto il resto e completato il quadro. Ma lo sfregio definitivo continua ad essere inflitto dal valore legale dei titoli di studio, come sconsolatamente ammetteva Einaudi: “Sono vissuto per quasi mezzo secolo nella scuola ed ho imparato che quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza, valgono meno della carta su cui sono scritti. Per alcuni – vogliamo giungere al 10 per cento dei portatori di diplomi? – il giovane vale assai di più di quel che sta scritto sul pezzo di carta od, almeno, del pregio che l’opinione pubblica vi attribuisce; ma ‘legalmente’ l’un pezzo di carta è simile ad ogni altro e la loro contemplazione non giova a chi deve fare una scelta tra coloro che offrono se stessi agli impieghi ed alle professioni”.

Per Einaudi i diplomi legali producono due effetti perversi: ingannano i diplomati, inducendoli a credere che hanno ‘diritto’ a un posto superiore negli impieghi e nelle professioni, e ingannano la società, eccitando le invidie e gli egoismi nelle attività lavorative. Contro i titoli facili o fasulli, Einaudi, anche in questo inascoltato educatore sociale, proponeva un utile rimedio, cioè obbligare il titolato ad esplicitare sempre e comunque chi gli ha rilasciato il diploma, con i seguenti numerosi vantaggi: accreditare l’istituto che egli illustra con i suoi meriti; screditare l’istituto che egli danneggia con i suoi demeriti; attirare studenti negli istituti seri, il cui diploma garantisce lavoro e carriera; scoraggiare l’ambizione degli aspiranti ad un diploma purchessia. I danni indotti dai diplomi con forza di legge, “amminicoli esteriori in cui soltanto sta la sostanza del valore legale”, sono morali, economici, sociali, profondi e duraturi: “Quando in un Paese da un secolo e mezzo è inoculato il veleno del ‘valore legale’ è vano sperare che, se anche quel valore fosse negato, vengano meno, non aiutando il costume, i suoi difetti. Che sono di irrigidimento del meccanismo sociale, di formazione di un regime corporativo di caste l’un dell’altra invidiosa, ciascuna intenta ad impedire all’altra di lavorare diversamente da quel che è scritto nelle leggi e nei regolamenti; e tutte intente a cercare occupazione, salari, stipendi là dove non si possono ottenere e cioè nei vincoli posti alla libertà di agire degli uomini”.

Nelle critiche e nelle lagne sul declino, evidente e misurabile, dell’Italia, gli autori delle prime sono quasi sempre i responsabili del secondo. È insita nel carattere degl’Italiani la doppiezza arlecchinesca di servire due padroni ovvero, come si dice, recitare le due parti in commedia. Così vediamo, caso unico al mondo, i ministri censurare severamente il dicastero che dirigono, restando impudicamente al loro posto, e la maggioranza fare anche le veci dell’opposizione. E vediamo pure biasimare uno stato delle cose, ma non peritarsi di scoprirne le cause e prospettare i coerenti modi e mezzi per eliminarle. Rigidità sociale, corporativismo, invidie professionali, caste contrapposte, lacci ordinamentali, parassitismi, sono mali denunciati anche oggi da quasi tutte le forze politiche, che però ben si guardano dal proporre e tradurre in leggi le misure appropriate a contrastarli, del genere di quella drastica e risolutiva invano caldeggiata da Einaudi tanti lustri fa.

Aggiornato il 14 dicembre 2017 alle ore 08:02